A Messina contro tutte le mafie

MESSINA. Il 21 marzo 2016, alle porte della primavera, è stata celebrata come ogni anno la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti cadute per mano delle mafie. L’associazione Libera Contro le Mafie tra le molteplici iniziative di cui si occupa, ha organizzato per l’occasione la XXI marcia a Messina (da dodici anni Libera non svolgeva una delle marce in Sicilia), in collegamento diretto con marce in ogni regione d’Italia, così da coinvolgere più attivamente tutti i territori italiani – come «ponti di impegno» ha affermato don Luigi Ciotti.

Oltre trentamila persone tra studenti, rappresentanti di istituzioni locali e nazionali, lavoratori, etc. hanno ascoltato (e alcuni recitato) i nomi delle 900 vittime innocenti delle mafie, oltre che il discorso tenuto a Messina dal presidente dell’associazione don Luigi Ciotti.

Il giornalista e scrittore pugliese Pino Aprile scrive nell’introduzione de Il Sud Puzza (ritornando nell’ambientazione meridionale da lui già descritta in Terroni e Giù al Sud) che alla fine della vergogna – generata da incresciosi meccanismi ormai consolidati, si trova l’orgoglio, col quale si costruisce un nuovo ordine, tra vecchie abitudini e caos.

Gli individui orgogliosi di cui parla si raccolgono in comunità, fulcri di cambiamento: un esempio di attivismo che vuole cambiare tali meccanismi è proprio quello proposto da Libera e noi de L’Universitario abbiamo ritenuto fondamentale fornire una testimonianza diretta dell’evento, dalla “capitale” delle marce, Messina.


Quando è una battaglia di facciata

Il discorso è stato inizialmente colmo di commozione per l’affluenza d’interessati alla questione e, terminati i convenevoli, si è addentrato nel merito delle politiche antimafia e delle polemiche riguardo a tali politiche. Questo perché capita spesso che l’impegno nel denunciare – anche a costo della vita – meccanismi e racket mafiosi sia seguito da disimpegno delle istituzioni nel gestire i beni confiscati. Se anche si riesce a ottenere di liberare un’azienda o un bene dalle Mafie, il fatto che venga gestito in maniera pressappochista da incaricati non sempre competenti induce i lavoratori o coloro che assistono al fenomeno a pensare «magari si stava meglio quando c’era l’organizzazione. Perlomeno il lavoro si trovava e si manteneva: con l’impegno a metà non si porta il pane a tavola».

Per non parlare di casi in cui l’antiracket è soltanto una battaglia di facciata, come nel recente caso dell’imprenditore Vincenzo Artale, un simbolo dell’impegno contro la Mafia che finisce nel ciclone delle inchieste. Egli si sarebbe distinto per la denuncia di estorsioni di pizzo da parte di piccole organizzazioni mafiose, quando poi il suo cemento era imposto per lavori pubblici e privati grazie all’appoggio d’influenti boss della zona di Castellammare del Golfosi suppone esponenti di Cosa Nostra (indagini tutt’ora in corso da parte dei Carabinieri del comando provinciale di Trapani).

Difatti, nonostante l’entusiasmo dei partecipanti alla marcia, un vecchio avvocato si pronuncia in maniera scettica, in un bar sul lungomare di Reggio Calabria – dal quale luogo Messina e la sua marcia sembrano metaforicamente un miraggio, guardate attraverso la nebbia del tramonto. «Questa marcia non cambia molto nel panorama del Sud e non arriva che un’eco alle orecchie del Nord» afferma (abbiamo voluto parafrasare alcune espressioni peculiari calabresi per rendere in concetto comprensibile a ogni lettore).


Uniti nell’impegno

Effettivamente i valori e la voglia di cambiamento che trasudano dal ricordo delle vittime innocenti sono in gran parte mirabili prospettive, generate dall’attivismo presente da sempre e intensificato in seguito all’inchiesta parlamntare sulla Mafia del 1963. Tuttavia le due principali conclusioni che si traggono dall’iniziativa «ponti di impegno» non sono scontate: innanzitutto che la Mafia non sia marciasemplicemente un fenomeno criminoso locale recentemente “immigrato” in terre che non fossero il meridione, bensì una regola di comportamento sedimentata, un modo extra-statale di realizzare la giustizia e amministrarla con radici nello Stato (il «sentire mafioso» secondo lo studioso Giuseppe Pitré), il quale continua a mietere vittime.

È stato verificato che questa metodologia è dilagata come la «linea della palma, del caffè forte, degli scandali» (afferma il medico Brescianelli nel Giorno della Civetta di Leonardo Sciascia), ma non imposta da un particolare gruppo criminale o per dimenticanza di chi come Libera combatte attivamente e in loco i meccanismi mafiosi, ma perché rispecchia gli interessi di chiunque voglia detenere potere senza troppe ripercussioni burocratiche, allettati dalla facilità con cui si ottiene il controllo. Un sistema che si sviluppa tanto nel vuoto – normativo – dello Stato a danno di questo, quanto dentro lo Stato.

La seconda conclusione è che i “sopravvissuti” di ogni luogo d’Italia – chi ha resistito direttamente e indirettamente, quanto chi ha avuto la fortuna di non essere mai stato messo sotto pressione dalla «macina della Mafia» – possono combatterla, non soli ma uniti dall’impegno con molti altri. Con i pugni stretti, ma senza picchiare. Con i denti stretti, ma anche senza mordere. Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’Inferno, non è Inferno, e farlo durare, e dargli spazio – invece che accettare l’Inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.


A cura del nostro inviato,
FRANCESCO DESIMINE

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