Migranti, tre anni dopo manca ancora un cambio di rotta
Si potrebbero scrivere parole di condanna, parole dure contro politiche cieche, spietate, parole infuocate contro una morale poco attenta, contro la meschinità dominante. Si potrebbe urlare, bestemmiare, per la rabbia verso un sistema troppo poco attento all’esistenza degli altri, troppo focalizzato su sé stesso per prestare attenzione a coloro che si sono affacciati sull’uscio di casa nostra, chiedendo aiuto, e troppo spesso sono caduti, sommersi nel mare della nostra vergogna.
Si potrebbe fare tutto questo e molto altro, il 3 ottobre, una giornata di commemorazione, di dolore, di solenni promesse. Tuttavia sembra molto più importante guardare alla realtà: più di 300mila persone, fino alla fine di settembre di quest’anno, sono giunte “sane e salve” sulle nostre coste, sulle coste dell’Europa. Persone cariche di storie dolorose, di rinunce quasi insopportabili, di cari lasciati indietro ma anche di speranze per una vita diversa, in cui la morte non possa giungere in modo così casuale, sia per mezzo di una bomba lasciata cadere dall’alto piuttosto che per fame, malattie o povertà.
Storie diverse, mosse da motivi simili. Storie che giungono da paesi molto diversi e molto simili allo stesso tempo. Di queste persone, dall’inizio del 2016 166mila sono giunte in Grecia, 133mila in Italia e 3mila in Spagna. Numeri tutto sommato ridicoli se si pensa che nel 2015 gli arrivi superarono il milione di persone, numeri che però raccontano che il “problema” esiste ancora, anche se raccontato (talvolta) un po’ sottotono. I numeri, questi infingardi capaci di animare la retorica dell’invasione tanto cara ai populisti di ogni luogo, raccontano anche una storia ancora più tragica: quella delle 3498 persone “dead or missing”, “morte o disperse” (dati UNHCR), a partire dal 1 gennaio di quest’anno.
3498 persone.
Si potrebbe pensare, sciorinando i dati degli arrivi, che questo sia un anno più tranquillo, un “anno buono”: del resto, non raggiungeremo mai il milione di persone dell’anno scorso, non fosse altro perché il confine tra Grecia e Turchia è sottoposto a quell’accordo oltraggioso tra l’Europa ed Erdogan. Tuttavia, se si guardano i numeri di quelli che non ce l’hanno fatta, ci si rende conto che lo scorso anno sono stati 3771, due anni fa 3500. In totale, e non fino a settembre. Questo numero, che si spera non aumenti (una di quelle speranze innocenti e quasi infantili che comunque animano i nostri cuori), dovrebbe pesare sulle spalle di tutti: non si tratta della “solita retorica buonista” quanto piuttosto di un dato di fatto. Perché è vero che viviamo da 7 anni in una continua recessione, è vero che le nostre vite sono costantemente sottoposte a pressioni, al dolore, a fatiche e che “prendersi cura di tutti non si può”. Ma il 3 ottobre del 2013 tanti di noi sono rimasti sgomenti di fronte a quelle 386 vite spezzate di fronte all’uscio di casa nostra.
Questo ha portato a diverse conseguenze: le operazioni Mare Nostrum, prima, e Triton, poi, che hanno consentito di salvare tante vite e a cui quelle 3498 persone non vanno di certo addebitate. La sensibilizzazione sul tema dell’accoglienza che, lentamente (o più lentamente di quanto vorrei, probabilmente), sta facendo breccia nella nostra quotidianità, scardinando i muri mentali della “paura dello straniero” eretti da populisti e gelidi calcolatori. Quelle vite spezzate non vanno di certo addebitate agli uomini ed alle donne che, tutti i giorni, prendono il largo e “tirano su“, ad una ad una, tante storie che possono ancora avere un lieto fine. Tuttavia, i dubbi sull’efficacia di quelle operazioni sono inevitabili: come è possibile che, nonostante oggi vi sia un presidio importante da parte degli Stati dell’UE, nel Mediterraneo si profili il bilancio peggiore degli ultimi 6 anni?
Perché è di questo che stiamo parlando: nel 2013, dopo il naufragio di Lampedusa, è stato istituito Mare Nostrum ma l’aumento di morti in mare (quell’anno 3500 a fronte delle 600 dell’anno precedente) poteva essere imputato all’impennata di arrivi ed alle difficoltà oggettive di quella missione. Tuttavia, con l’istituzione di Triton le morti non sono diminuite: ma anche in questo caso gli arrivi sono aumentati arrivando a quel bilancio impressionante, 1 milione di persone sulle nostre coste nel giro di un solo anno. L’anomalia però giunge quest’anno: se nel 2016 gli arrivi si sono ridotti di 700mila unità lungo tutto il confine Sud dell’Europa, si può immaginare che le vittime superino o si avvicinino parecchio alla quota dell’anno passato. La domanda dunque è: come è possibile che questo fatto non faccia tremare le vene nei polsi di coloro che tengono i cordoni della borsa? Come è possibile che la nostra empatia, quella manifesta ed espressa dalla maggioranza di noi, si limiti a giornate come il 3 ottobre?
Forse non è corretto ritenere responsabile l’intera collettività. Sicuramente non lo è se si considerano le migliaia di volontari che, in tutta Europa, aiutano queste persone, dimostrano che non siamo una civiltà di muri ma (anche) di solidarietà. Tuttavia il nostro lato peggiore tende ad avere ancora il sopravvento: alcune volte di più, erigendo mura lungo i “confini caldi” d’Europa (Calais, Idomeni, Ungheria, Serbia, Macedonia), altre volte di meno, rigettando orrendi referendum proposti da governanti reazionari che, in qualche modo, sono riusciti ad infilarsi sotto il grande ombrello protettivo dell’Unione Europea pur rinnegando, nei fatti, alcuni dei suoi principi fondamentali.
Il 3 ottobre non è un giorno di polemica ma piuttosto di riflessione: una riflessione che diverrà utile solo se saremo capaci di entrare in polemica con noi stessi. In caso contrario, si limiterà a diventare una stucchevole manifestazione della nostra ipocrisia.