L’opinione. Se la speranza si tinge di nero: dalla Polonia all’Argentina, forse qualcosa si muove
Ci siamo dimenticati del femminismo. Ce ne siamo dimenticati e già solo per questo dovremmo sentirci dei cretini. Ce ne siamo dimenticati e lo abbiamo accantonato, perché alla fin fine le donne qualche risultato lo hanno ottenuto. Votano, lavorano, a parole sono uguali agli uomini. Però ci siamo dimenticati che quanto ottenuto è solo un primo passo: ottenere un risultato, anche il più insperato, il quale tuttavia non comporta la piena e sostanziale uguaglianza tra le persone allora non può che essere un primo passo. Se poi si tiene conto del fatto che in gran parte del mondo le donne sono oggetto subordinato al soggetto, che è l’uomo, allora quel primo passo finisce con l’essere futile o irrisorio. Con questo non voglio dire che le conquiste del movimento femminista siano state gettate al vento in ogni paese in cui si sono concretizzate ma l’onda nera che sta attraversando il mondo è il segnale che qualcosa è andato storto.
La Polonia, Stato membro dell’Unione Europea, un’unione “dei diritti” (e non l’ho detto io ma la Corte di Giustizia dell’Unione nel 1986), ha tentato di far passare una legge in materia di aborto che impone un divieto pressoché assoluto, prevedendo il carcere per la donna o il medico che violi questo dogma. Una legge insostenibile che tuttavia ha dovuto attendere una mobilitazione straordinaria delle donne per essere fermata, sintomo di qualcosa di più che di un semplice scollamento tra la politica e il popolo quanto piuttosto di un radicale conflitto di valori. E sul conflitto di valori che spacca in due la Polonia ha scritto Benedetta Leardini sulla rivista Left:
«In Polonia c’è un conflitto di valori che è andato accentuandosi negli ultimi anni», conferma la sociologa Marta Brzeżyńska-Hubert. «Da che io ricordi, dalla fine dell’epoca comunista non c’è mai stato un tale divario nella nostra società. La frattura prima correva lungo il solco dell’appartenenza politica, adesso invece la situazione si è estremizzata […]. La situazione è molto delicata perché mette al centro qualcosa che non si può negoziare: valori, e non interessi economici o politici. […] Il conflitto è esasperato ulteriormente dalle narrazioni dei nostri media, che riportano fatti radicalmente diversi a seconda dell’orientamento politico», prosegue Hubert.
La protesta, in Polonia, ha avuto successo: oggi la legge proposta dal governo di Beata Szydło è stata fermata da quella imponente mobilitazione. Tuttavia no noi può pensare che il pericolo sia completamente scampato, né si può pensare che la cosa non ci tocchi: infatti se è vero che la Polonia è una nazione tradizionalmente ultra-cattolica, se è vero che il governo polacco sia uno dei più reazionari all’interno degli Stati dell’Unione, è vero anche che l’aborto è lontanissimo dall’essere una conquista granitica radicata nella nostra società. Si pensi a quanto successo a Catania, al modo in cui una donna non ha avuto accesso alle cure per (pare) l’obiezione di un medico (anche se il ministro Lorenzin ha oggi smentito questa ricostruzione): come si può considerare l’aborto una conquista della nostra comunità se porlo in pratica è pressoché impossibile?
Tempo fa, Chiara Lalli su internazionale.it aveva scritto:
C’era una volta l’obiezione di coscienza, per molto tempo un gesto ribelle, libertario, di violazione di un divieto o di un obbligo.
C’era una volta Antigone, che disobbedì all’ordine del re Creonte di non seppellire il fratello. E c’erano i giovani uomini che rifiutavano l’obbligo del servizio militare, quando esisteva solo quello armato, e a volte anche dopo, quando è stato possibile scegliere quello non armato. Al divieto di Creonte e all’obbligo di leva ci si opponeva in nome di altri valori: dare sepoltura al fratello, rifiutare la violenza e le armi.
E lo si faceva senza aver compiuto in precedenza una libera scelta, come invece accade oggi con chi decide di studiare medicina e deve poi affrontare la questione dell’aborto.
Infatti, se Antigone rappresenta la scelta coraggiosa di chi si oppone ad una legge ingiusta, oggi, l’obiettore, è come un tiranno che nega un diritto fondamentale ad un altra persona. E, in ciò, non c’è davvero niente di nobile o coraggioso.
In Argentina e in tutto il Sud America, le donne sono scese in piazza, pronte a lottare contro una società maschilista ed ottusa, pronte ad alzare la voce per le vite spezzate dal femminicidio, per i diritti negati sul posto di lavoro, per la mentalità maschilista che pervade la società latinoamericana. In un’intervista rilasciata a Adele Lapertosa per ilfattoquotidiano.it, Camilla Andrade, direttrice dell’Ufficio delle pari opportunità dell’Università del Cile ha detto:
“Per molti anni noi donne, in America Latina siamo scese in piazza a protestare contro la violenza, anche con azioni articolate e collegate in più paesi del continente. Quello che è nuovo ora è l’imponenza della manifestazione, che se non è stata la più massiccia, sicuramente è tra le maggiori, anche per la brutalità dell’omicidio, e la partecipazione di molti giovani e di uomini”[…] Florencia Abbate, referente del gruppo, ha chiarito che “lo sciopero è solo per le donne, una forma di mostrare che le cose, senza di noi, non funzionano. Però se gli uomini vogliono partecipare alla marcia va bene. Molti sono preoccupati, e non è ipocrisia”[…].
Tutto ciò è “indicativo che il tema della violenza alle donne – continua Andrade – non è più solo dei gruppi femministi storici, ma è importante anche per le nuove generazioni. Credo che ci siano buone possibilità che la lotta prosegua”.
Sappiamo bene che il problema non è solo latinoamericano: se è vero che dei 25 paesi del mondo con il tasso più alto di femminicidi, 14 sono latinoamericani, è vero anche che in Italia il 31,4% delle donne ha dichiarato (dati ISTAT per il 2014) di aver subito molestie sessuali o fisiche nel corso della vita, il 4,5% nel corso di quello stesso anno. Contando che, nel 2014, il 51,5% della popolazione era composto da donne (circa 31 milioni e 300 mila unità), allora quello stesso anno 1 milione e 400 mila di loro ha dichiarato di aver subito un qualche tipo di violenza fisica o sessuale.
Se a tutto ciò aggiungiamo la disparità che ancora pervade la nostra società, dalla paga alle posizioni di potere, sembra impossibile che proteste come quelle polacche o argentine non si ripetano costantemente e con la medesima intensità nelle piazze di tutto il mondo.
Io credo che quella rivoluzione rumorosa sarebbe necessaria, sarebbe la spinta finale per vedere gli sforzi della rivoluzione silenziosa, che comunque esiste, giungere alla loro realizzazione: e questa rivoluzione è quella che riempie le nostre aule universitarie di tante persone diverse, integrate, che sono accomunate dal desiderio di sapere così come dall’incertezza per il futuro, a prescindere dal fatto che una componente sia più o meno numerosa. Non tutti la pensano in questo modo: sono sicuro che vi siano tra noi universitari anche tanti che ancora ritengono le donne in qualche modo inferiori, che le ritengano oggetto del proprio piacere oppure che pensino che i risultati finora raggiunti siano già il traguardo ultimo cui esse possono aspirare.
Proprio per questo credo che una rivoluzione silenziosa sia in atto: non è detto che questa sia in grado di portare frutti, né tanto meno che sia una percezione reale. Io posso vedere quanto accade attorno a me, in un raggio più o meno grande ma non globale, per un arco di circa cinque anni “avanti” ed “indietro” ma che non riesce a ricomprendere le generazioni che verranno. Mi sento di poter dire che nelle aule universitarie si respira uguaglianza e rispetto al di là della buona educazione. Mi sento di poter dire che la maggioranza di noi si sente in una posizione di parità con l’altro. Ma, così come prevedere come si comporteranno le generazioni a venire è difficile, allo stesso modo lo è fare un discorso che comprenda tutti gli aspetti della vita, tutti i gruppi sociali e, così, diventa difficile misurare quanto davvero incida questa rivoluzione. Proprio per queste ragioni credo che non sia sufficiente cambiare un comportamento alla volta, in una persona alla volta, per un gruppo sociale alla volta: credo che oggi ci sia necessità di una nuova rivoluzione rumorosa, di donne e uomini in piazza, uniti, per dire che le streghe sono tornate e che, questa volta, andranno fino in fondo.