Suoni Universitari, seconda serata: le interviste ai concorrenti
In attesa della terza serata dei Suoni Universitari, assieme a Paolo e Marta di SanbaRadio, ho avuto l’opportunità di incontrare nel backstage i concorrenti in gara per permettere loro di parlare della loro musica, le loro idee e i loro sogni per il futuro. Ecco cosa ci hanno raccontato!
- ALVISE OSTI PROJECT – Alvise è uno studente di storia, classe 1996. Ha partecipato ai Suoni Universitari come solista, suona la chitarra da quando aveva otto anni.
Come nascono le tue canzoni?
Sono nate quest’anno, volevo comunicare qualcosa di intimo… qualcosa di diverso da quello che faccio di solito: suono metal in una band, i Leathermask, con cui pubblicherò un disco a breve.
Da quanto suoni da solo?
Un anno, è la prima volta che mi esibisco come solista portando dei pezzi che ho scritto apposta per il mio progetto solista. I Suoni Universitari mi hanno fatto da slancio… li ho pubblicati sulla mia pagina Facebook, hanno avuto un buon successo.
C’è differenza fra suonare in gruppo e da solista?
Tantissima… “totale”. Suonare metal significa estremizzare un’emozione negativa portandola alla massima potenza. Fare solista invece è come invitare qualcuno in cameretta…
Quanto metal proporrai oggi?
Zero. Le influenze rimangono ma ultimamente non rientra nei generi che ascolto di più… e inevitabilmente quello che ascolto influenza quello che suono: molte parti sono pop.
Molti metallari, crescendo, ad un certo punto “cambiano genere”… tu quando ti taglierai i capelli?
Dipende, certe persone non escono mai dal loro carattere e se lo tirano dietro per sempre, per altri invece è solo un urlo adolescenziale. Magari sono fasi, alcuni alla maturità mettono il vestitino e rinnegano il passato… ma per me è un po’ ipocrita, andrebbe sintetizzato in sfaccettature, cosa che alla fine molti artisti metal fanno. A me piace, giusto ieri sono andato a un concerto degli Opeth [gruppo prog svedese, ndr] e hanno spaccato.
Che musica ascolti?
Tantissimi… COD, Vetrozero, Bluvertigo, Bowie, Lou Reed, Pink Floyd… da poco ho scoperto Battisti. Poi c’è Mimosa, un’artista emergente che ho sentito a Treviso la settimana scorsa… bravissima!
Di cosa parlano le tue canzoni?
Di me. Mi piace scegliere le parole, anche quando parlo. Parto da me, da cose che mi sono successe, e ci metto un filtro. Alcuni possono riconoscersi in me, altri magari no. Gli argomenti sono… eterogenei. Una delle canzoni che porto oggi mi è venuta in mente mentre stavo al Lago di Caldonazzo una mattina, mi hanno ispirato dei riflessi sul lago.
Qual è stata la cosa più strana che ti è successa ad un concerto?
Non a un concerto, ma il giorno dopo… abbiamo trovato una lamentela sul giornale da parte di un vicino che voleva godersi la sua musica ma la sua serata è stata rovinata da quello che ha definito “sound apocalittico”!
- THIRD STONE – I Third Stone sono un gruppo rock della Val di Sole, composto da tre amici: Emanuele “Bobby” (voce e chitarra), Emanuele “Filly” (batteria) e Giorgio (basso).
Perché suonate insieme?
B: Ci piace lo stesso genere, ci ispiriamo al rock anni ’70! Siamo un gruppo soprattutto da live!
Come vi siete conosciuti?
B: Veniamo da una scena musicale ristretta… in Val di Sole, nel giro ci si conosce un po’ tutti! Io e Giorgio suonavamo già insieme, mentre Filly l’abbiamo conosciuto su un sito di annunci per musicisti. Suoniamo insieme da un sacco di tempo!
Come avete scelto il vostro nome?
B: Eravamo alle strette prima di un concerto… preso da Jimi Hendrix! Ma non è fisso, per noi contano le persone, la composizione del gruppo, non il nome.
Qual è il pubblico più caldo con cui avete mai avuto a che fare?
G: Quando suoniamo sulle piste da sci dalle nostre parti e abbiamo a che fare con i turisti polacchi… [ride] sono molto… fusi, diciamo.
- GUFRA – I Gufra sono un duo, formato da Chiara (voce e chitarra) e Riccardo (tastiere). Quello ai Suoni Universitari è stato il loro primo concerto.
Cosa significa il vostro nome?
C: è una parola araba… indica la quantità esatta che sta dentro due mani raccolte a coppa. Mi piace perché è una parola intraducibile, esprime un bel concetto… qualcosa di “uncountable”, inconsistente, come la musica!
Di dove siete, e cosa fate nella vita?
R: Vengo dalla Val di Fiemme, lavoro a Bolzano come programmatore.
C: Sono di Lecce, ho studiato prima a Napoli ed ora a Rovereto.
Come vi siete conosciuti?
C: Tramite la mia coinquilina, che è la fidanzata di Riccardo… Abbiamo passati molto diversi, il suo è molto più professionale del mio: io ho iniziato a strimpellare a vent’anni, lui è figlio d’arte!
R: In famiglia siamo tutti musicisti, mio padre è bassista.
Dunque c’è un’influenza familiare?
R: Sì, suono jazz come mio padre… il mio gruppo principale è un trio jazz. Ho studiato musica per tre anni a Rovereto ma col lavoro c’è meno tempo. Finché si è giovani vale la pena provare a vivere di musica, se si ha voglia di continuare a cercare ingaggi… ma dopo no!
Sei “intimidito” dalla tradizione musicale della tua famiglia?
R: No, non mi interessa il giudizio altrui… forse quando vivevamo tutti insieme!
Che genere proponete?
C: Non saprei… facciamo qualcosa di fuori dagli schemi! Cantiamo in inglese!
Che musica ascoltate?
C: Cantautori “antichi”… [ride] Testa, De Andrè… poi se devo andare a un concerto mi piace anche la musica odierna, ma potendo scegliere…
R: Yellowjackets, Pat Metheny Group… gruppi acid jazz. Poi nel jazz si parla più spesso dei singoli che non dei gruppi: Pat Metheny, Mike Stern…
Com’è nato il vostro progetto?
C: Siamo riusciti ad accordarci… ciascuno porta il suo, magari all’inizio c’è conflitto ma riusciamo poi a trovare una sintesi delle nostre posizioni! Per noi questo contest è una sfida!
Siete agitati?
C: Io sono ancora nella fase della negazione! [ride]
Dove vi vedreste a suonare?
C: Per strada! Mi piace l’idea di avere un pubblico passante a cui si può cambiare… neache una giornata, ma magari una mezz’ora… quando studiavo a Napoli mi capitava di sentire suoni per strada, magari erano suoni “sporchi” ma era bello! Anche se effettivamente il nostro non è proprio un genere musicale da strada…
Cosa ci dite dei vostri testi?
C: Sono tutti in inglese, quindi forse è un po’ penalizzante per il pubblico… ma parleremo durante lo spettacolo! Scrivo e suono tantissimo quando sono da sola, un po’ come sfogo, dai miei versi faccio una bozza di melodia che con Riccardo poi diventa una canzone completa! Spesso parto da metafore che uso per convogliare i miei problemi. Scrivo direttamente in inglese, mi riesce meglio… è più adatto a “condensare” i miei pensieri.
- SOMA BUTTERFLY – I vincitori della serata, sono un quintetto che propone una musica dalle venature jazz, ma molto originale e particolare. Composti da Valerio (tastiere e seconda voce), Conny (cantante), Martina (sassofono), Amanda (violoncello) e Nicola (batteria)
Da quando suonate assieme?
V: Da febbraio… è stato un lento aggregarsi, prima la band aveva altri membri ma sono cambiati quasi tutti perché volevo cambiare genere e passare da qualcosa di più pop verso il jazz.
Come vi siete trovati?
V: Ho trovato Amanda grazie al mio ex-batterista, Martina tramite un avviso in cui cercavamo un sassofonista. Conny… ho visto una sua foto con un microfono in mano [ride], abbiamo provato e mi ha convinto!
Da dove venite?
V: Siamo di Trento ma Amanda è spagnola, studia violoncello al conservatorio…
A: Mi piacerebbe fermarmi in Italia!
Quali sono le difficoltà che avete riscontrato nel proporre la vostra musica?
V: Diciamo il luogo di origine… a Trento ci sono poche occasioni, e l’atmosfera musicale è un po’ “viziata”: è difficile emergere su una scena dove ci sono pochi posti, specie perché quei posti sono già occupati da degli artisti affermati! Inoltre, è difficile proporre qualcosa di diverso da quello che va più di moda… ci sono pochi posti, si chiude presto, e il pubblico è poco interessato alle novità!
M: Il problema è che il jazz è visto un po’ come un genere di sottofondo… quando lo chiedono, generalmente vogliono qualcosa di tranquillo.
Ma dunque… che genere fate?
M: Avantgarde Jazz… ma non proprio, non improvvisiamo così tanto.
V: Potrei dire jazz rock ma ci decapitano! [ride]
C: Il nostro ha tante influenze contemporanee… i testi metaforici non c’entrano tanto col jazz “classico”…
M: C’è molto rock!
Come componete la vostra musica?
V: Io compongo e scrivo i testi… ma non sono isolato, raccolgo gli spunti del resto del gruppo! Poi a loro do carta bianca…
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
V: Vogliamo registrare una demo, anche fuori provincia… abbiamo i pezzi e il materiale per fare live, ma dobbiamo registrare! Poi il mio grande sogno sarebbe fare un musical con i nostri pezzi… e gli altri mi supportano!
Siete amici? Andreste in vacanza insieme?
Tutti: Sì, ci vogliamo tutti bene!
Non improvvisate nulla?
M: Io praticamente sempre… come si fa nel jazz alla fine, magari prima penso a cosa voglio fare ma alla fine esce sempre qualcosa di diverso!
C: Mi piace molto improvvisare sui pezzi di Martina!
Come avete scelto i pezzi che proporrete stasera?
M: Iniziamo con un pezzo molto d’impatto, orecchiabile, che può attirare il pubblico; poi in mezzo ci mettiamo una ballad più lenta; l’ultimo infine è più tecnico, più particolare…
V: L’ultimo pezzo è quello più… “da giuria”: più vicino a quello che è il nostro sound. In finale, se ci arriviamo [incrocia le dita] ne proporremo altri!
Avete paura del confronto con le altre band?
M: Magari il pubblico che non ascolta solitamente jazz non è abituato… evitiamo di fare cose troppo di nicchia per non essere incompresi! Non so come il pubblico reagirà alla nostra musica…
C: Non penalizza noi, ma magari è difficile trasmettere quello che vogliamo trasmettere…
È difficile auto-promuovere la propria musica?
V: Diciamo che noi non vogliamo “essere visti”… l’immagine inevitabilmente influenza il pubblico e contamina la purezza della musica. Puntiamo di più sulla discografia che non sui live…
C: Poi per carità, per motivi economici i live si fanno! [ride] Però l’idea è quella!
M: Poi se andiamo a un concerto live magari mi piace ascoltare musica diversa da quella che facciamo…
C: Il nostro genere è molto dinamico, è un po’ difficile… dobbiamo riuscire a mantenere l’interesse del pubblico, altrimenti è un po’ limitante!
- TAIO BEST SOUND – Al secolo David e Fabio Girardi, due fratelli che propongono un misto di dance e hip-hop su basi autoprodotte. David studia infermieristica, mentre Fabio si è laureato in Belle Arti ed ora lavora come oste.
Presentatevi! Da dove deriva il vostro nome?
F: Io ho iniziato per primo a fare musica con altri ragazzi del nostro paese… che è Taio, in Val di Non! Abbiamo creato una sorta di scuola per i ragazzi dei nostri dintorni: David si è costruito uno studio di registrazione a casa nostra, tutto da solo! Spesso suoniamo con altre persone e facciamo anche altri generi. Stasera faremo rap anche se noi non siamo proprio “dentro” la cultura hip-hop…
D: Io faccio il DJ, produco, ed ogni tanto rappo… anche se è un po’ difficile fare tutto, con l’università!
Quali aspetti sono più difficili, nella vostra esperienza?
F: è difficile trovare ingaggi come DJ set… bisogna chiedere tanto in giro. Qualcosa troviamo in valle, ma per i concerti dobbiamo spostarsi verso Trento dove c’è una mentalità più aperta ed un pubblico più propenso alle novità!
Quali sono i vostri riferimenti musicali?
F: Anche se cantiamo in italiano io non ascolto rap italiano… a dire il vero ascolto proprio poco rap, salvo qualche canzone. Mi piace il folk, il jazz… artisti come Aretha Franklin, Frank Sinatra… diciamo che ho molte influenze. Ascolto poca musica contemporanea.
D: Ascoltare rap italiano condiziona molto nella scrittura delle canzoni… facendo DJ set ho ampliato molto i generi da cui prendo ispirazione! Fra le mie influenze direi 2pac, ma mi piace di tutto… Zucchero, Daddy Yankee, Flo Rida, will.i.am…
Come mai niente rap italiano?
D: Secondo me il rap italiano odierno non è rap… si sta spostando verso il pop e passa brutti messaggi… non mi prende, mi piaceva di più quello tra gli anni novanta e i primi duemila. Poi io spesso non guardo il testo, pochi mi trasmettono qualcosa. Da beat-maker faccio più caso alle basi!
Come lavorate, di solito?
D: Io ho fatto CD miei, lui i suoi… poi ci piace collaborare! Abbiamo ciascuno il suo percorso personale e poi quello condiviso. Io “metto giù” una base a seconda di come mi sento… non li compongo “a tavolino”, si sente quando un pezzo è vissuto e quando no. Poi alcune basi le tengo per me, altre le propongo a lui o per lavorarci insieme. A volte rimangono accantonate per tanto tempo, anche cinque anni, perché non ci viene da svilupparci nulla. Diciamo che componiamo a strati: aggiungiamo elementi nuovi a poco a poco!
Quanto tempo dedicate alla musica?
D: Purtroppo con lo studio è difficile… e poi dovrò sacrificare tempo per trovare un lavoro… quando avrò fatto però tornerò in studio!
F: Fino al 2014 eravamo sempre in studio. Poi negli anni in cui studiavo a Verona abbiamo collaborato poco, puntando soprattutto sui DJ set che ci permettevano anche di guadagnare qualcosa…
Vivete assieme? Cosa pensano i vostri genitori della vostra musica? E del vostro studio?
D: Gli ho pulito la soffitta! [ride] Ho fatto tutto da solo [lo studio di registrazione, ndr] pian piano, tutto col mio sudore e per questo ne vado ancora più fiero!
Come vi muovete sul palco? Avete molta gestualità? Prendete ispirazione da qualcuno?
F: Ci piace prendere un po’ in giro… poi essendo raramente in due non abbiamo un “numero fisso”. Stare da solo sul palco è difficile, la gente si aspetta molte cose, ed un musicista deve saper dare impeto al pubblico! Cerchiamo sempre di essere energetici, ma mai aggressivi o volgari: abbiamo passato quelle fasi in cui si è sempre incazzati, o in cui si pensa solo alle feste!
D: se c’è un altro DJ che lancia la base sono più sciolto e posso muovermi di più… invece se in console ci sono io sto più fermo, mi sento come un direttore… ho più responsabilità!
Perché rap? Come avete iniziato?
D: Da piccolo ascoltavo di tutto… poi sono arrivati dei CD con 2pac, MondoMarcio, Eminem… e mi piaceva come si esprimevano senza cantare!
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