Al di là dell’anti-Trumpismo.

La notizia corre su Twitter, i giornali esteri ne parlano fin dal mattino ed aprono tutti con le immagini di piazze gremite di persone con un cappellino rosa in testa, con le trasmissioni live da quei palchi su cui, per tutta la giornata, si alternano uomini, donne, cantanti, attivisti, persone comuni: é il 21 gennaio ed è il giorno della Women’s March.  L’iniziativa parte da un gruppo di donne americane e si propone diversi obiettivi in risposta a due necessità ugualmente sentite. Da una parte c’è un’America diversa da quella di Trump, che intende ricordare al presidente neo-eletto e a quella parte della società che ha vinto con lui, che mezza America la pensa diversamente. Dall’altra, si leva in tutto il mondo, con una sorta di spirito solidaristico, certamente, un movimento che condivide le medesime necessità ed i medesimi presupposti di quello americano: dall’Australia al Regno Unito, dal Kenya alla Francia. Si stima che quasi 5 milioni di uomini e donne siano scesi in piazza per manifestare e, così, mantenere fede ai propri ideali, vilipesi da una certa retorica “maschilista” (ma, più che maschilista, direi ottusa), una retorica che  viene ben personificata dal nuovo Presidente americano.  In Italia, piccole manifestazioni, soprattutto se confrontate a quelle del resto del mondo, hanno dimostrato la propria solidarietà verso l’iniziativa.

Il palco di Washington D.C., epicentro mondiale dell’evento, è stato allestito poco distante dalla balconata del Congresso da cui Donald Trump ha pronunciato il suo primo discorso da Presidente. A quelle parole di chiusura, di paura, di sconforto, hanno risposto centinaia di migliaia di persone con cori di scherno, canzoni, racconti e grida di battaglia: le parole di decine di persone, celebrità e non, rappresentanti di associazioni che difendono il diritto alla salute, combattono per l’equal pay, operano in sostegno alla maternità, salvaguardano il diritto all’aborto, i diritti LGBTQ, i diritti delle minoranze, di ogni ordine e grado, delle donne afro-americane, degli uomini afro-americani, delle vittime di stupro, di sfruttamento sessuale o di violenza domestica. Persone ed associazioni diverse, unite da un intento comune che non si limita al dimostrare il proprio profondo dissenso verso il neo-eletto Presidente USA. Ridurre quelle piazze ad una sterile “opposizione postuma” verso un uomo democraticamente asceso al potere comprimerebbe gli ideali di comunanza, di rispetto reciproco, di slancio ideologico che hanno portato a quel fiume di cappellini rosa in una sorta di rancoroso rigurgito di una parte sconfitta dell’elettorato americano.

A ben vedere, ciascuna persona su quel palco sapeva di fare parte di un mondo più complesso, più vario e colorato, e non ha fatto altro che chiedere di essere riconosciuto come tale. Ha chiesto che i diritti di tutti vengano tutelati, garantiti e resi effettivi nei fatti, a prescindere da chi sia a tenere le redini. Semplicemente perché è giusto. Ognuno di loro ha chiesto rispetto e lo ha fatto con forza.

Il palco di Washington D.C. ha parlato di tutto ciò. E come quel palco anche le centinaia di altri luoghi in cui si sono riunite persone di ogni tipo, per solidarietà, per convinzione. Perché si sentono in qualche modo partecipi di quelle stesse necessità. Quella partecipazione che è stata il filo rosso della manifestazione: la necessità che chiunque senta forti determinate esigenze si renda protagonista, agisca in prima persona. E’ questo il messaggio che affiora dai discorsi dei vari relatori: da Michael Moore a Gloria Steinem, da Sybrina Fulton a Van Jones, da Maryum Ali a Ilyasah Shabazz. Il fatto che queste manifestazioni si concentrino in una sorta di anti-Trumpismo spinto, non deve confondere: Donald J. Trump rappresenta solo lo stereotipo di un “tipo umano” che, in questa sorta di scontro dialettico costituisce l’avversario naturale contro cui scagliarsi, niente più che un’espediente retorico per concentrare lo sforzo e, allo stesso tempo, mantenerlo unitario. Sul fronte USA, la manifestazione di sabato scorso sottolinea un altro aspetto: in un passaggio del suo “contro-discorso” nel giorno dell’insediamento, Obama ha detto:

This is just a little pit stop. This is not a period, this is a comma in the continuing story of building America.

E tutto ciò, come al solito, non può essere semplicemente circoscritto agli USA. E’ vero, dall’altra parte dell’Atlantico l’attenzione su questi temi è salita moltissimo nell’ultimo anno. Dal movimento Black Lives Matter alle lotte nei tribunali e nelle piazze di molti Stati in cui si stanno rivedendo le legislazioni in materia di aborto, di maternità, di immigrazione, l’America vive un nuova fase di riconquista di diritti e libertà che si pensavano già acquisiti. Tuttavia anche questo “lato” dell’Atlantico non se la passa benissimo, nonostante  l’interesse di fronte a questi temi sia frustrato dal perseverare della crisi economica e da un senso di sfiducia ed instabilità dilagante.

I temi della diseguaglianza sociale, della discriminazione dettata da motivi di genere o di razza o di orientamento sessuale, della violenza che spesso accompagna queste situazioni non sono venuti meno neanche in Europa. Tanto per fare un esempio: nel marzo scorso, i dati di un osservatorio economico richiamati da laRepubblica riportava che lo stipendio medio per le donne era del 10,9% più basso rispetto a quello per gli uomini. Non nel 1916 ma nel 2016. E non in qualche sperduto Paese del terzo mondo, ma qui, in Italia.

Ma si potrebbe andare avanti ancora e ancora. In Italia, la violenza sulle donne è un tema centrale e non è stato risolto con l’approvazione di una legge sul femminicidio; la maternità, fino a non molto tempo fa, poteva essere motivo sufficiente per il licenziamento grazie alla pratica delle dimissioni in bianco. Ed ad oggi rimane  un pericolo non del tutto superato. Il diritto ad accedere all’aborto, al sicuro, in una struttura ospedaliera, è messo in costante pericolo da  regioni in cui 9 medici su 10 sono obiettori di coscienza. 9 su 10.  Allo stesso modo, essere omosessuale è ancora considerato peggio dell’aver commesso un reato. Oppure è considerata una malattia: in ogni caso, comporta emarginazione e violenza, verbale o fisica. E lo stesso si può dire per chi appartiene ad una religione diversa da quella della maggioranza, oppure per chi ha la pelle di colore diverso: i problemi, da noi come da loro, rimangono gli stessi.

Al solito, gli americani si rendono protagonisti di un cammino per molti versi già tracciato da altre persone in giro per il mondo: dai movimenti femministi argentini che chiedono maggiore severità contro i femminicidi, alle manifestazioni in Francia contro il Jobs Act, alle dimostrazioni nostrane del movimento “Se non ora, quando”. Momenti sporadici, episodi che però sono legati da un filo rosso, piccoli tasselli di un percorso più vasto di cui la manifestazione del 21 Gennaio è solo l’ultima tappa. 3 milioni e mezzo di persone su 7 miliardi forse non sono un granché: ma il fatto che vi siano state oltre 670 manifestazioni coordinate in tutto il mondo, nate da un movimento per lo più spontaneo (sebbene ben organizzato), rimane un fatto di portata eccezionale. E, poi, che tutto ciò avvenga il giorno dopo l’insediamento di Donald J. Trump alla Casa Bianca contribuisce a donare una prospettiva che si proietta direttamente nei prossimi 4 anni e, perché no, nel futuro di tutti noi.

Emanuele Pastorino

Vivo a Trento, orgogliosamente come immigrato, da un po' di tempo. Membro dell'associazione Ali Aperte.

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