Mar Cinese Orientale e Meridionale | Le avvisaglie di un conflitto.
Le vicende del Mar Cinese Orientale e del Mar Cinese Meridionale.
Dopo aver implicitamente cestinato la decennale politica della “unica Cina”, pietra angolare per poter intraprendere qualsiasi relazionale diplomatica e commerciale con il paese del dragone, telefonando alla leader di Taiwan, il presidente si è così espresso su Twitter:
La Cina ci ha mai chiesto se fosse OK per noi che svalutassero la loro moneta (rendendo più difficile la competitività delle nostre aziende), tassare pesantemente i nostri prodotti nel loro paese (l’America non tassa i loro), o costruire un grande complesso militare nel mezzo del mar della Cina? Io non credo proprio.
L’ultima domanda retorica riaccende i riflettori sull’aerea geopoliticamente più calda del globo. Una zona dove il minimo errore potrebbe portare allo scontro armato Cina e Stati Uniti oltre ai rispettivi paesi satelliti. È la zona del Mar Cinese meridionale e del Mar cinese orientale.
N. B.
Quanto qui riportato è frutto della personale passione sul tema dell’autore e di una lunga e, per quanto possibile, accurata ricerca su internet delle fonti. Non pretende di essere una perfetta analisi geopolitica. Eventuali errori e/o imprecisioni possono essere segnalati direttamente a l’Universitario.
Le rivendicazioni di sovranità territoriale della Cina nel Mar Cinese rendono l’area una delle più pericolose zone di tensione geopolitica dei nostri tempi. I paesi coinvolti sono molteplici ma i protagonisti principali sono certamente la Repubblica Popolare Cinese, (a cui si affianca la Repubblica di Cina, Taiwan, che muove le medesime rivendicazioni del regime di Pechino), gli Stati Uniti e il Giappone.
Ma cosa riguarda questa disputa territoriale? Quanti stati sono coinvolti e quanto è pericolosa?
Oggetto delle rivendicazioni territoriali cinesi sono 3 differenti arcipelaghi. Nel mar cinese orientale la Cina rivendica le isole Senkaku, formalmente giapponesi. Nel mar cinese meridionale sono invece rivendicati gli atolli delle Paracel e delle Spratyls. Quest’ultimo scenario vede la Cina contrapposta a Vietnam, Filippine, Indonesia, Malesia e Brunei.
Isole Senkaku
Partiamo dal primo arcipelago, nel mar cinese orientale. Le isole Senkaku sono formalmente Giapponesi sin dal 1895 quando in occasione della guerra sino giapponese furono occupate dalle forze imperiali giapponesi. Successivamente alla guerra vennero riconosciute come parte del territorio giapponese con il Trattato di San Francisco (1951) e, appartenendo alla prefettura di Okinawa, rimasero sotto controllo statunitense dal 1945 al 1972 quando furono restituite a Tokyo.
La disputa territoriale sulle isole Senkaku era considerata di minore importanza dallo stesso Mao Tse Tung e infatti fino agli ultimi anni le isole non hanno fatto sorgere problemi. La disputa si è infiammata nel 2012. In quell’anno il governo giapponese ha infatti acquistato le isole dai privati cittadini che le detenevano sin dal 1932. La nazionalizzazione ha fatto infuriare la Cina e ci sono state azioni di boicottaggio e sabotaggio delle industrie nipponiche sul territorio.
Già nel 2010 vi erano stati incidenti fra dei pescatori e la guardia costiera (che avevano tra l’altro indotto gli USA a schiararsi apertamente con il Giappone) ma successivamente al 2012 vari attivisti sia cinesi che Taiwanesi sono giunti sulle isole per piantare delle bandiere, poi rimosse dalla guardia costiera. L’atto che più ha fatto infuriare Tokyo è stata l’instaurazione nel 2013 da parte di Pechino di una Zona d’identificazione per la difesa aerea (ADIZ), inserendo così l’area nella propria zona di azione militare. Area violata in segno di sfida dagli Stati Uniti che hanno sorvolato l’area con 2 B-52. Nell’area dei due mari cinesi sono presenti la III^, la V^ e la VII flotta statunitense, che formalmente vigilano sul rispetto della libertà di navigazione ma che non si può escludere possano andare a bloccare l’accesso alle isole artificiali costruite dalla Cina (di cui parleremo successivamnete) secondo quanto auspicato dal segretario di Stato scelto da Trump, Rex Tillerson.
Considerando che Giappone e Stati Uniti sono legati dal 1960 da un Trattato di Difesa reciproca, se la Cina dovesse compiere azioni militari per “difendere la propria sovranità” non solo il Giappone risponderebbe alla provocazione, ma avrebbe al suo fianco gli Stati Uniti, potenza nucleare come la Cina. Nonostante alcuni analisti ipotizzino che l’economia cinese non sia ancora in grado di sostenere una guerra massiccia sul lungo periodo, uno scenario bellico è ben lontano dall’essere pura fantapolitica. Questo rende la disputa la più pericolosa per la pace globale sul lungo periodo.
Sulla base di cosa la Cina rivendica la sovranità sulle isole Senkaku (Diaoyu in cinese)? Il nocciolo della questione ruota attorno all’occupazione delle isole da parte del Giappone nel 1895. Il Giappone affermò allora, e continua ad affermarlo tutt’oggi, che le isole risultavano disabitate e che nessuna traccia di insediamenti sia mai stata trovata. Pertanto, trattandosi di una “terra di nessuno” il Giappone ne ha acquisito la sovranità con la semplice occupazione. Contrariamente a questo la Cina afferma che le isole erano abitate sin dai tempi antichi. Le rilevazioni giapponesi sarebbero state superficiali, inesatte e incomplete come dimostrerebbe la corrispondenza nipponica fra Okinawa e Tokyo finita in mani cinesi. A ciò si aggiungono altre complesse questioni giuridiche. Nel 1943, al Cairo, gli alleati firmarono con la Repubblica di Cina una dichiarazione nella quale si impegnavano a riconsegnare le isole Senkaku, impegno preso anche dall’U.R.S.S. nel 1945 con la Dichiarazione di Potsdam. Ma le isole non vennero citate nell’trattato di San Francisco del 1951, trattato con il quale il Giappone veniva obbligato a riconsegnare tutte le acquisizioni territoriali precedenti alla guerra. Fra queste restituzioni non figuravano le Senkaku.
Ora immagino che i pochi lettori giunti fino a questo punto si staranno chiedendo “che importanza hanno queste isolette disabitate per un gigante come la Cina?” ma la risposta probabilmente si è già formata nelle vostre menti. È nero, denso e puzza ed è la causa della maggior parte dei conflitti della seconda metà del secolo breve. Petrolio. Enormi giacimenti scoperti sia al di sotto del mar cinese meridionale che sotto il mar cinese orientale. Il controllo delle isole permetterebbe alla Cina di estendere nel mezzo del mare un’area di 200 miglia tutto intorno ad esse dove si garantirebbe lo sfruttamento esclusivo di tutte le risorse ivi presenti. È la ZEE, la zona economica esclusiva, riconosciuta dal diritto internazionale del mare sia consuetudinario, sia pattizio.
Ma forse non è solo al petrolio ciò a cui punta la Cina. Svariati analisti internazionali ipotizzano che la tattica cinese possa essere una particolare strategia diplomatica indicata con i termini di issue linkage e coercitive diplomacy: la prima consiste nel far comprendere alla controparte che una determinata questione non può essere affrontata se un altro contenzioso resta aperto; la seconda ha l’obiettivo di condurre il paese a un cambio di atteggiamento su di una determinata disputa, paventando il ricorso alla forza o ad altri mezzi di coercizione. L’obbiettivo cinese sarebbe quindi quello di scoraggiare il Giappone dalla modifica dell’art. 9 della propria costituzione fortemente voluta dall’attuale premier Shinzo Abe. L’articolo impedisce alle Forze di Autodifesa giapponesi (l’esercito) di intraprendere azioni militari all’estero. L’altro obbiettivo cinese è quello di portare il Giappone a ripensare la posizione di implicito riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità di Taiwan.
Non dobbiamo dimenticare infine un altro fattore importante. L’economia cinese sta rallentando. Il patto sociale che regge la nazione è semplice: lo Stato garantisce il benessere economico dato dalla crescita esponenziale e la popolazione accetta il regime dittatoriale con le conseguenti limitazioni di libertà. Se viene meno la crescita economica, il patto si incrina. Le crisi internazionali fungerebbero quindi da distrattore sociale, soffiando sulla fiamma del nazionalismo e distogliendo l’attenzione da un’economia che inizia a mostrare inquietanti segnali di rallentamento.
Isole di Paracel e Spratyls
Andiamo ora nelle più calde acque del sud, nel mar cinese meridionale.
Come già detto, gli atolli contesi in quest’area sono quello delle Paracel e quello delle Spratyls. Storicamente da sempre considerati dominio cinese, vengono occupati nel 1932 dalla Francia, che approfittava della situazione di difficoltà della Cina, allora impegnata nella seconda guerra sino giapponese, per annetterli al proprio impero coloniale. Nel 1938 gli atolli vengono poi occupati dal Giappone che li abbondonerà alla fine della Seconda Guerra Mondiale per riconsegnarli a… nessuno. Dalla fine della guerra le isole sono contese fra Repubblica di Cina e Francia (a cui subentreranno poi gli Stati costieri nati dallo sfaldamento del suo dominio coloniale). Nel 1948 viene pubblicata su un atlante la nine-das-line, una rappresentazione dell’estensione delle rivendicazioni Cinesi sul mar cinese meridionale. Considerando quanto detto precedentemente la linea appare grottesca sotto vari aspetti (si consideri che arriva a lambire e perfino violare i mari territoriali di Filippine e Vietnam). In qualsiasi caso la vicenda cade nel dimenticatoio fino agli anni ’70, quando un gruppo di paesi capeggiati dalle Filippine inizia una occupazione militare sistematica degli atolli in seguito alla scoperta di importanti giacimenti di idrocarburi (ne dubitavate?). La Cina non rispose con la forza (non era ancora il gigante dei nostri giorni). All’inizio di questo decennio la disputa si riaccende. La Cina rivendica l’intera area, occupa parte delle isole e l’atollo Scarborough e soprattutto inizia la costruzione di isole artificiali e l’ingrandimento di quelle esistenti. Questo è un punto fondamentale e una delle questioni che hanno fatto entrare a gamba tesa nella questione anche gli Stati Uniti.
Le “isole” in realtà sono poco più che scogli, dell’altezza massima di 2 metri ad alta marea e in alcuni casi sono meri banchi di sabbia. Porzioni di terra che non possono di per sé costituire territorio e quindi garantire l’area di 12 miglia di mare territoriale e 200 di ZEE. Così la Cina ha iniziato a ingrandirle, ha costruito un aeroporto militare e istituito una Zona di Identificazione per la difesa Aerea, ADIZ (come nelle Senkaku). Gli Stati Uniti, temendo una limitazione della libertà di navigazione, hanno volutamente violato (di nuovo) insieme al Giappone l’area. La Cina ha risposto installando nelle proprie isole artificiali delle batterie antimissili a lunga gittata. Mentre accadeva tutto ciò, le Filippine ricorrevano al Tribunale d’arbitraggio dell’Aia per vedere riconosciute le proprie ragioni. Era il biennio 2013-2014.
Lo scorso anno abbiamo avuto l’ultimo anno di questa tormentata vicenda. Il 16 luglio 2016 il Tribunale dell’Aia ha accolto la posizione delle Filippine affermando che non esiste alcuna base legale perché la Cina possa rivendicare tali territori e soprattutto che l’allargamento e la creazione di isole artificiali non valgono a costituire mare territoriale e ZEE. Il Tribunale non ha alcun potere coercitivo nei confronti della Cina, che infatti ha dichiarato di non voler dare assolutamente alcun peso alla sentenza e che non abbandonerà le isole, ma costituisce un buon precedente per rafforzare le rivendicazioni degli altri paesi circostanti.
Sui motivi che spingono la Cina a rivendicare queste isole si possono menzionare i già citati giacimenti di petrolio, e il tentativo di costruzione di una propria sfera di influenza nell’area asiatica. A ciò e all’effetto di catalizzatore sociale che queste imprese hanno sull’opinione pubblica, va aggiunto il timore cinese di vedersi commercialmente “strozzata”. Nel mar cinese meridionale passa il 40% del commercio mondiale e il suo controllo garantisce di non rimanere isolati oltre ad un naturale vantaggio strategico.
Le risposte agli atteggiamenti cinesi non sono state efficaci. I paesi coinvolti direttamente sono Vietnam, Filippine, Indonesia, Malesia e Brunei e nessuno di questi ha buoni rapporti con i propri reciproci vicini. La strategia militare americana si è sempre limitata a creare trattati di difesa bilaterali con ogni singolo paese (strategia hub and spoke) ma non è mai stato favorito un dialogo fra gli stessi paesi, discordi su molteplici questioni. La sentenza del 16 luglio potrebbe, sotto questo punto di vista, rafforzare le ragioni dei paesi coinvolti e coalizzarli contro il comune avversario. Va precisato che l’attuale presidente delle Filippine Duerte, convinto antiamericano, si è detto disposto a raggiungere una soluzione diplomatica con Pechino.
L’amministrazione Obama ha lavorato per creare la giusta arma di ricatto e di risoluzione diplomatica della vicenda, il TPP, un trattato di libero scambio che coinvolge quasi tutti gli Stati dell’area del Pacifico, esclusa la Cina (Stati Uniti, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam), la quale, per non ritrovarsi commercialmente strozzata, sarebbe dovuta scendere ad accordi con gli USA. Il neoeletto presidente Trump ha però più volte dimostrato – con affermazioni e atti legislativi – di non voler continuare sulla strada del liberismo, preferendo una politica maggiormente protezionistica.
In un mondo globalizzato come il nostro, le vicende cinesi toccano anche la nostra Europa, ed è alla luce di queste gravi situazioni di crisi che si dovrebbe tornare a parlare di una politica estera e di forze armate comuni a tutti i 27. La presidenza Trump si prospetta come filo-putiniana, anti atlantista e aperta allo scontro con la Cina. Questo pone la nostra Europa di fronte a nuove e gravi sfide e soprattutto a una analisi su quello che sarà il nostro futuro. Perché non si può contare solo sul peso economico. Conta anche quello diplomatico e, purtroppo, militare.