L’opinione. Al Festival dell’economia la redenzione degli esperti
TRENTO – Gli esperti ormai non contano più. Chi ha studiato, chi ricopre posizioni di potere, chi decide, deve avere inevitabilmente degli interessi nascosti da preservare, altrimenti non farebbe quello fa. Gli esperti sono persone noiose da ascoltare, che non hanno idea dei problemi della gente vera e per questo non dovrebbero avere più diritto di parola. Magari chi sta leggendo si ritrova in queste parole, o forse no, ma certamente non si può dire di non averle sentite o viste scritte sempre più spesso negli ultimi anni. Di esperti, siano economisti, politici, giornalisti o medici qui al Festival dell’Economia ce ne sono tanti, e alcuni si rendono perfettamente conto di ciò che la “gente comune” pensa di loro.
Una delle preoccupazioni di Jean Tirole, premio Nobel, è infatti l’ascesa dei populismi che “giocano sulle paure delle persone”. “Con Trump gli esperti sono stati messi da parte, ma il pubblico deve capire cosa sta succedendo. Per questo ho scritto un libro, è la prima volta che parlo direttamente al pubblico”. Tirole già prima di vincere il Nobel era autore e ricercatore stimatissimo tra gli accademici, ma dopo l‘aggiudicazione del premio si è accorto che la gente per strada lo fermava per chiedergli cosa pensasse su questo o quell’argomento, e proprio per questo ha scritto il libro “Economia del bene comune”: raggiungere un pubblico più ampio, parlare a chi economista non è, e se non proprio alla casalinga di Voghera almeno a chi mostra curiosità ed interesse, le uniche due qualità che Tirole trova necessarie per approcciarsi all’economia.
Sulla stessa lunghezza d’onda è Jonathan Gruber, professore del MIT e architetto dell’Obamacare: “In un momento storico in cui gli esperti, i fatti e le posizioni della scienza vivono una stagione di discredito, è rassicurante vedere che qui a Trento in questo Festival vengono invece tenuti in grande considerazione e rispettati”
Un’altra super esperta è Nemat Shafik, già vicedirettrice del Fondo Monetario Internazionale e a settembre prima donna a dirigere la London School of Economics, che dice: “In questo particolare momento della nostra storia la fiducia nei tecnici e negli esperti sta venendo meno. E questo per una serie di motivi, a cominciare dalle disillusioni che ha portato la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dell’Eurozona. Un’altra ragione sta nel monopolio della formazione dell’opinione pubblica, che oramai non è più solo affidata agli esperti ma è fortemente ridimensionata dall’affermarsi dei social media e dal cambiamento delle nuove tecnologie dell’informazione. La possibilità di accesso a molte informazioni, se da una parte è un bene, dall’altra ne impedisce la verificabilità e così si finisce a vivere in una sorta di “bolla mediatica virale”, dove quello che conta non è l’obiettività e l’importanza della notizia ma il numero di “like” e delle condivisioni”. Conclude poi affermando che “il Festival dell’Economia è un bellissimo esempio di come sia possibile divulgare l’informazione economica alla collettività, creando un importante momento di incontro tra pubblico ed esperti”
La domanda che sorge spontanea, almeno a chi scrive, è se il pubblico del Festival non sia anch’esso essenzialmente costituito da esperti. L’anziana coppia in pensione o il giovane universitario/accademico non sono forse le persone che più necessitano di essere convinti dell’importanza degli esperti. Chi si sente escluso, chi ha perso il lavoro, che è arrabbiato con la classe politica non è probabilmente il frequentatore tipo degli incontri del Festival. Basta anche solo scorgere i commenti agli articoli sul Festival dei principali giornali trentini: si va dalle offese a qualunque ospite, alla lamentela dei soldi spesi o alla grande gioia di sapere che Laura Boldrini ha annullato il suo incontro in programma al Festival. Sia quasi l’impressione che la redenzione degli esperti sia solo agli occhi di chi è appena meno esperto di loro, in una sorta di autoconvincimento.
All’inizio degli anni ‘50, uscì un saggio scritto da Enzo Forcella, che s’intitolava “1500 lettori”; erano quelli che potevano capire ciò che scrivevano i giornali italiani, fatti ad uso e consumo di chi deteneva il potere e dei giornalisti stessi. Forse oggi stiamo sperimentando lo stesso problema: gli esperti non riescono a comunicare con tutti i cittadini, rendendo più appetibili le ricette semplici ma poco efficaci delle forze antisistema. Qui al Festival si sta provando a ribaltare il trend, tanto che i vari incontri sono costantemente pieni. Il fatto che molti relatori, politici ed economisti si stiano accorgendo del problema è poi positivo, ma la redenzione non è ancora completa.