L’economia della politica in America, stavolta non di De Tocqueville
TRENTO – Siamo tutti consumatori inconsapevoli immersi nel mare dell’Economia della Politica. Se c’è qualcuno che ancora continua ad illudersi che la sfera economica e la sfera politica, così come la sfera sociale, abbiano mantenuto e mantengano ancora ai giorni nostri le distanze, si sbaglia di grosso.
Il pensiero economico deve assolutamente prefiggersi l’obiettivo primario di cambiare, deve spingersi ben oltre il pensiero economico neoclassico, che non è riuscito negli ultimi anni né a determinare il benessere dei cittadini, né a supportare le cosiddette “promesse democratiche” di libertà e uguaglianza effettive dei nostri paesi globalizzati, se vogliamo credere alla possibilità di miglioramento.
Questo è quanto emerso dalle numerose conferenze, tenute durante il Festival dell’Economia, che sono state organizzate in collaborazione con illustri studiosi dell’INET, Institute for New Economic Thinking.
Nato a seguito del Bedford Summit (NY) da un confronto acceso tra il finanziere e filantropo George Soros, gli economisti Rob Johnson, Anatole Kaletsky e Roman Frydman, ed altri 25 accademici, finanzieri e giornalisti, riunitisi per discutere una possibile ridefinizione dell’economia a seguito dello scoppio della crisi finanziaria, l’istituto è di fatto un’organizzazione no-profit. Essa si prefigge come scopo primario quello di supportare teorizzazioni o ricerche rilevanti e avveniristiche che possano interrogarsi sui più pressanti problemi della società di oggi. Tra questi, figurano la relazione tra finanza ed economia in senso lato, le disuguaglianze economiche e la distribuzione delle risorse e la sostenibilità ambientale.
All’interno dell’idea pervasiva che l’Economia ormai regoli qualunque sfera del nostro agire sociale, si inserisce senza dubbio la capacità della classe politica attuale di entrare a gamba tesa nei suoi meccanismi e, a sua volta, di lasciarsi corteggiare dalle sue logiche.
Thomas Ferguson – Direttore della Ricerca per l’INET, nonchè professore prima presso il MIT di Boston e poi presso la University of Texas, a Austin – ha dedicato gran parte dei suoi studi accademici a delineare il grado di interazione tra queste due sfere, concentrandosi in particolar modo sui temi dei finanziamenti privati ai candidati delle presidenziali in America e alla lettura dei fenomeni elettorali-politici in chiave economica. Riuscire a dare una spiegazione dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca analizzando il fattore economico, a detta sua, è quasi scontato.
Tutto ha inizio con il finanziamento privato delle campagne elettorali in USA. Non tutti sanno che nel 2014, una sentenza della Corte Suprema statunitense ha fatto cadere i limiti ai contributi elettorali multipli. Fino a quel momento un singolo non poteva donare più di 123mila dollari a un insieme di candidati, partiti o comitati politici (46mila e 200 dollari quando si tratta soltanto di candidati).
La sentenza, eliminando il tetto, secondo molti – tra cui lo stesso Ferguson – avrebbe consegnato la politica e la democrazia statunitense ad un ristretto gruppo di ricchi. Secondo l’esperto, saremmo giunti ad una situazione per cui, sia nel contesto delle elezioni americane, ma anche in altri frangenti in cui il “foraggiamento” delle campagne elettorali viene affidato a gruppi extra-sistemici, con interessi (neanche tanto celati) di un ritorno in termini di politiche economiche a loro favore, la composizione dei nostri rappresentanti non sarebbe più determinata solo dalla somma delle preferenze degli elettori. Per dire le cose come stanno, c’entrano i soldi.
E attenzione, è lo stesso Ferguson a sottolineare come in realtà, soprattutto a fronte dell’esito elettorale che ha contraddistinto le scorse presidenziali, sia fondamentale non incorrere nell’errore di pensare che una maggiore quantità di denaro ricevuta durante la campagna automaticamente abbia portato alle conseguenze che ormai conosciamo. In politica, oramai il denaro conta, e conta moltissimo, soprattutto in termini di visibilità e di pubblicità, ma più che la quantità di dollari, sono state determinanti le fonti dalle quali tali somme di denaro provenivano.
Analizzarle può farci sembrare molto meno “folle” il risultato elettorale dello scorso novembre, può essere chiarificante sul perché gli americani si siano schierati apertamente con una personalità come quella di Trump, da un lato, e dall’altro perché egli abbia deciso e stia portando avanti con risolutezza quelli che in campagna elettorale sembravano soltanto slogan “populisti”. Analizzare le entrate in tema di finanziamenti elettorali, dice Ferguson, è estremamente complicato a causa della presenza di dark money, fondi la cui provenienza non necessita di essere specificata. In ogni caso, lui e parecchi altri specialisti del settore, hanno avuto modo di elaborare i tantissimi dati presenti in circolazione e stilarne una lista accurata di deduzioni.
In primis, Trump aveva ricevuto numerosi finanziamenti da quelli che possono essere considerati “investitori più piccoli”, e di base, da molte industrie petrolchimiche. La Clinton, dovendo rinsaldare il legame che era in parte stato deteriorato dalla presidenza Obama con Wall Street, è stata sostenuta da parecchie banche “a grossa portata”, tra cui la Goldman Sachs.
Tali finanziamenti hanno avuto una ricaduta sull’elettorato in questi termini: le numerose categorie di persone lasciate a casa dalla crisi economica, alle quali l’élite democratica non aveva saputo dare risposte e certezze durante il doppio mandato Obama, risentita dei numerosi compromessi con le multinazionali e dei faticosi sacrifici compiuti dalle amministrazioni per salvare il tracollo delle banche, hanno preferito votare un soggetto che si dichiarava “apertamente contro la globalizzazione” piuttosto che una donna che aveva puntato molto sulla sua figura di candidata (incentrando la propria campagna sul fatto di essere la prima donna a correre per la White House e, soprattutto durante la fase finale, pochissimo sul proprio programma elettorale) senza tenere presente che non ci si poteva più permettere compromessi con determinati finanziatori.
Sappiamo però anche che, alla luce del meccanismo economico di valutazione dei costi e dei benefici, per forza di cose determinati tipi di investimenti da parte di una base solida che voleva Mr. Donald Trump come presidente avrebbero chiesto indietro qualcosa. Trump ha cercato di accontentare le promesse dei suoi finanziatori, ed è esattamente questo il motivo per cui non dobbiamo rimanere esterrefatti o basiti di fronte a determinate scelte politiche del neoeletto presidente statunitense.
A pagarne il prezzo, secondo Ferguson, sarà di certo l’Europa, costretta a scontrarsi con la caparbietà di un individuo che deve riuscire a far intersecare i risultati politici promessi dai suoi sostenitori “a livello economico” e contemporaneamente le aspettative dell’elettorato. Le sue sono azioni dovute. Ma – aggiunge Ferguson – non bisogna dare per certo il fatto che, quanto promesso in campagna elettorale, trovi effettivamente una propria concretizzazione. Questo perché saper mediare gli interessi variegati anche del panorama geopolitico, dei possibili alleati e partner strategici commerciali, è tutta un’altra storia.
Se davvero Trump vorrà mantenere il sostegno più largo possibile, accattivandosi anche quelle branche economiche che l’avevano sostenuto solo in minima parte, non potrà pensare di tornare indietro sulla globalizzazione e chiudersi a riccio su di un modello economico protezionista. La situazione è molto più articolata di quello che sembra. E se davvero l’inquilino della Casa Bianca, sull’altro piatto della bilancia, non riuscisse ad accontentare i malumori dell’elettorato provato dalla crisi, gli scenari politici potrebbero diventare estremamente più complessi, con il rischio che non si riesca a tracciare una previsione certa del comportamento degli elettori alla prossima tornata elettorale.
Ma se tale panorama di fitti scambi politico-economici potrebbe sembrare unicamente catastrofistico, il direttore della ricerca di INET mette in luce da ultimo come, in realtà, un sorprendente fattore sia nato e abbia raggiunto risultati sorprendenti e insperati durante le elezioni americane: il fattore Bernie Sanders. A chi gli chiede se la Corsa alla Casa Bianca del Senatore del Vermont abbia effettivamente fatto la differenza, alla luce dei suoi scarsissimi finanziamenti e della sua campagna basata unicamente sul consenso diretto, Ferguson risponde che sì, forse c’è ancora un briciolo di speranza.