Collettivo Universitario Refresh – ma chi sono?
Intervista a Gabriele Lusini sul CUR – Collettivo Universitario Refresh – del quale fa parte.
In diverse occasioni s’è sentito parlare di voi, ma chi siete?
Siamo un collettivo universitario da circa 4 anni; ci preoccupiamo della vita dello studente – di quella passata in facoltà e all’esterno, secondo la nostra visione politica: un’Università come istituzione, ma anche come entità parte del contesto urbano (soggetto di gestione e trasformazione).
Ma com’è avvenuto l’incontro e tra chi?
Alcuni studenti e studentesse, con luoghi di frequentazione comuni, hanno iniziato a uscire dall’individualità e a cercare risposte alle problematiche, alle questioni percepite; non hanno trovato nella rappresentanza studentesca le loro risposte, poichè non si riconoscevano nel meccanismo della delega: il Collettivo non decide a maggioranza, ma sintetizzando tutte le posizioni presenti. Il problema della rappresentanza è la distanza tra gli studenti e il tavolo – quello dove rappresentanti e dirigenza s’incontrano.
Dato che siete di quest’opinione, non avete mai pensato di connettere le rappresentanze agli studenti o provare ad esserlo voi?
Rifiutiamo il meccanismo della delega a livello universitario, perchè secondo noi annulla l’iniziativa dello studente dal basso, quindi la differenza sta nella pratica. Non solo processo decisionale, ma anche dal punto di vista operazionale: la “pubblicità” della decisione si dovrebbe tradurre nella possibilità “pubblica” (quindi di tutti) di dialogare con l’istituzione.
Qual è il vostro percorso sulla percezione della città?
L’analisi teorica che guida la nostra azione di rivendicazione del diritto alla città si basa sull’assunto che «tutti hanno diritto a vivere uno spazio urbano, secondo bisogno e necessità», come anche su lettura e discussione di alcuni testi fondamentali circa il diritto alla città, declinati in chiave studentesca: Il capitalismo contro il diritto alla città di D. Harvey, Il diritto alla città di H. Lefebvre e Cities for People, Not for Profit: Critical Urban Theory and the Right to the City di M. Mayer.
I cardini sono lo spazio pubblico – come luogo di socialità slegata dai comuni meccanismi trentini, il consumo e il degrado, dal punto di vista universitario, poichè punto di vista e target di riferimento del Collettivo, ma la riflessione è ovviamente generalizzabile all’abitante generico dello spazio urbano. Abbiamo collaborato anche con altre realtà, come il Collettivo Transfemminista Queer Trento o la Rete contro i Fascismi. L’osservazione di partenza è “finite le lezioni, l’universitario dove va per socializzare?” – pensando ad un luogo che non sia necessariamente di consumo. Un luogo poteva essere Piazza Santa Maria Maggiore, dove circola la logica del degrado, che alimenta retoriche elettorali.
L’Università è spesso corpo estraneo – vedi le facoltà in collina – quando invece è a tutti gli effetti uno dei motori sociali, politico-economici e culturali di una città (lo mostra la BUC o le lauree in piazza Duomo, la consegna delle pergamene è politica in un certo senso). La retorica della neutralità della cultura viene facilmente smascherata dai fatti.
Lo strumento di aperitivi o dj-set può coinvolgere ed è necessario a una realtà autofinanziata – ma il risultato gradito più che il consumo è la socialità libera, cosa che a Trento da tempo manca.
Partendo da un’Università inserita nel contesto urbano a pieno titolo, come abbiamo detto, la riflessione sulla socialità si ramifica e giunge inevitabilmente alla retorica del degrado. Il nemico pubblico, il degrado, è ciò che non corrisponde alla concezione di città vetrina; il Collettivo si oppone a identificare il degrado con socialità libera dal consumo necessario, ma non solo.
La crescente militarizzazione non aiuta, ma asseconda un delirio che trova la soluzione nel controllo delegato alle forze dell’ordine. La tendenza si è trasferita all’Università: vedi la guardia giurata che s’intende mettere a Sociologia. Il problema sta nella concezione che si dovrebbe avere di Università, caratterizzata da un clima aperto e sociale. Come prima siamo passati dall’Università alla città, ora il discorso della città si va a trasporre sull’Università.
L’Università, le sue conoscenze, la sua cultura, tutto questo potenzia la città, ma poi il degrado che crea la socialità slegata dal consumo viene condannato. Lo spostamento che si vorrebbe alle Albere, magari un giorno con un campus studentesco, è una speculazione per profitto, perchè risponde alla logica degli affari – che fa costruire agli amici di amici. Le idee di Università e città non si incontrano perchè quella preferibile è slegata dal profitto, un ideale di Università e città umanamente ricca. Non si può desertificare un centro storico in crisi (affitti che s’alzano, negozi che chiudono) per costruire – spacciando la costruzione per necessità e dimenticando il motore della socialità.
Una risposta al centro storico vetrina ma deserto qual è?
Analisi, domande, risposte e magari errori verso l’Università: gli studenti che fanno da motore a questo processo dovrebbero essere chiamati ad esprimersi sempre più attivamente (guardia a Sociologia, borse di studio, etc.) sulle logiche e politiche che li riguardano. Si possono vivere socialmente spazi già presenti, magari meno dislocati, per parlare delle questioni più disparate – anche non legate all’ambito accademico (come mangiare un pasto da casa), tutto quello che gli studenti pensano, percepiscono. I bisogni e le necessità, le percezioni dello studente, non vanno necessariamente messi a profitto.