L’opinione. Numero chiuso: per una lettura più attenta
La prima volta in cui può trovarsi riscontro del c.d. numero chiuso in una legge italiana è nel lontano 1990 quando, Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il comma 4 della legge n. 341 prevede che “il ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica definisce, su conforme parere del CUN, i criteri generali per la regolamentazione dell’accesso alle scuole di specializzazione ed ai corsi per i quali sia prevista una limitazione nelle iscrizioni”.
Nel 1997, la quantomeno eterogenea (nel contenuto) legge n. 127 recante “Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo”, all’art. 17 comma 116 apporta una tanto piccola quanto incisiva modifica al testo della legge del ’90: le parole “per i quali sia prevista” sono sostituite con “universitari, anche a quelli per i quali l’atto del Ministro preveda…”.
Tuttavia, l’appena citata disposizione sin da subito non trova vita facile, e nel 1998 i TAR di Lazio, Abruzzo, Liguria e Marche sollevano il quesito di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale sulla legge n. 341 del 1990, così come modificata dall’art. 17 comma 116 della legge n. 127 del 1997.
In questo modo, a detta delle parti ricorrenti nei giudizi a quibus, ne sarebbe risultato, come si legge nella sentenza, “un potere illimitato, arbitrario e privo di ogni vincolo (del ministro), non più di regolare l’accesso ai corsi di iscrizione limitata, ma addirittura di stabilire quali corsi siano di tal genere, in violazione della riserva di legge contenuta nell’art. 33, secondo comma della Costituzione”.
Proseguendo, la Corte, attraverso l’attenta penna del giudice redattore, Gustavo Zagrebelsky, ci spiega che non c’è violazione dell’art. 33, comma 2 della Costituzione, in quanto la riserva di legge in esso contenuta è relativa, e dunque ammette che interventi normativi che non siano di fonte primaria (come ad es. un regolamento dell’esecutivo, o ministeriale) vadano a disciplinare la materia, pur restando nei limiti dei princìpi e criteri essenziali dettati dalla legge (normazione primaria).
In questo caso, in quanto nel ’98 non vi era un quadro generale predisposto dal legislatore nazionale che disciplinasse il numero chiuso nelle università, nella già citata sentenza (la n. 383 del 1998), la Corte fa espresso riferimento a diverse direttive della allora Comunità Europea, tra le quali segnalo in particolar modo la 78/687/CE e la 93/16/CE.
Queste direttive concernono il reciproco riconoscimento tra gli stati membri delle lauree in ambito medico, veterinario, odontoiatrico ed architettonico, e a tal fine impongono agli stati membri un obiettivo di risultato: assicurare una formazione universitaria adeguata negli ambiti citati, che sia accompagnata necessariamente da esperienza pratica. Detto ciò, il Governo italiano, per assicurare l’adeguata preparazione degli studenti italiani nei detti ambiti universitari, pensa (bene?) di limitare l’accesso alle facoltà interessate dalle direttive comunitarie con un intervento legislativo organico, sollecitato anche dalla sentenza n. 383 del 1998 della Corte Costituzionale.
La nuova normativa non si fa attendere a lungo, e la legge 2 agosto 1999, n. 264, recante “Norme in materia di accesso ai corsi universitari”, introduce il tanto famoso quanto discusso numero programmato a livello nazionale (numero chiuso), per i corsi di laurea in medicina e chirurgia, in medicina veterinaria, in odontoiatria ed in architettura.
La ratio di tale disposizione (tuttora vigente) sarebbe dunque quella di assicurare a tutti gli iscritti di dette facoltà di poter usufruire di strutture e attrezzature adeguate, così da poter equiparare il titolo rilasciato in Italia a quello dei colleghi degli altri paesi membri dell’Unione. In sintesi, un più o meno bilanciato compromesso tra il diritto allo studio, specificatamente il diritto per “I capaci e meritevoli […] di raggiungere i gradi più alti di studio”, come sancito dall’art. 34 della Costituzione, e il diritto a ricevere un’adeguata formazione che sia equiparabile a quella degli altri paesi europei, accompagnata da esperienze pratiche, che trova una base giuridica nelle direttive comunitarie.
Fin qui, vuoi per la ormai consolidata prassi del numero chiuso per le facoltà citate, vuoi per una eventuale opinione personale favorevole, non si riscontrano grandi problemi.
Il problema sorge, come è accaduto in questi giorni, quando diversi atenei, sulla scia del principio costituzionale di autonomia di università ed accademie, decidono di inserire il numero chiuso anche per l’iscrizione a facoltà che siano altre rispetto a quelle stabilite dalla legge del ’99, facendo riferimento ad un decreto ministeriale di accreditamento dei corsi, pubblicato dal MIUR dal 2004, che impone alle università dei parametri (es. strutture, numero di docenti ecc) per tenere aperto il numero di iscritti.
In questo modo il numero di atenei italiani che hanno previsto un test di ingresso per l’iscrizione presso le proprie facoltà (rectius: dipartimenti) è negli ultimi anni cresciuto vertiginosamente, includendo nel numero chiuso anche le facoltà umanistiche quali Filosofia, Lettere, ecc.
Ed è proprio in questo contesto che si inserisce la recente ordinanza del TAR Lazio, in risposta al ricorso promosso da UDU, che in questi giorni ha destato l’attenzione dei media.
I giudici amministrativi, in questa ordinanza hanno accolto il ricorso contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche in Statale a Milano.
Tuttavia, la questione in gioco è più grande di quanto possa sembrare, in quanto seppure la Statale ha rinunciato al ricorso al Consiglio di Stato, che inizialmente ci si aspettava, l’ordinanza del Tar Lazio crea un precedente di non poco conto. Infatti tutte quelle università che prevedono un test di ammissione per facoltà umanistiche (tra le quali vi è anche Trento) potrebbero trovarsi a fronteggiare futuri ricorsi, sulla scia di quello promosso (e vinto) dall’UDU.
Secondo l’UDU il 95% dei test di ammissione degli atenei con accesso programmato a livello locale (21% del totale degli atenei; fonte UDU) potrebbe essere a rischio.
Io personalmente, non sono, in assoluto, né a favore né contrario al numero chiuso negli atenei pubblici. Penso che ci sia la necessità impellente di operare delle distinzioni trattando la questione.
Ad esempio, nel nostro ateneo di Trento, il numero chiuso è stato esteso a tutti i dipartimenti, e questa soluzione sembra funzionare, in quanto l’università dispone di strutture, fondi e personale docente adeguato ad un congruo numero di studenti che annualmente si iscrivono e superano il test.
Il punto a mio avviso criticabile è la logica per cui il numero di posti messi in bando annualmente debba dipendere dallo scarso investimento di fondi e scarsa considerazione che lo Stato ha finora riservato all’istruzione, ed in particolare all’Università.
Inoltre, il problema spesso avanzato da coloro che a spada tratta difendono il numero chiuso, ossia che molti scambiano l’università per un “parcheggio” in cui trascorrere qualche anno, è risolvibile con diverse soluzioni.
La filosofa e docente universitaria Michela Marzano, su la Repubblica del 2/09/2017 ne propone una: introdurre, come avviene in Francia, un test di ammissione unicamente per la specialistica; questa è solo una delle tantissime strade percorribili alternative al numero chiuso come lo conosciamo in Italia, che potrebbe realizzare un compromesso tra diritto allo studio per tutti (i meritevoli) ed una qualità adeguata dell’insegnamento.
Concludendo, ritengo che il problema principale oggi sia l’attenzione (e i fondi) che un paese riserva o meno, al proprio sistema educativo, vero motore per un futuro migliore. Sembrerebbe essersene accorta anche il ministro Fedeli, che nel consueto meeting del Forum Ambrosetti a Cernobbio ha affermato: “Non ci si può lamentare dei pochi laureati e poi limitare l’accesso. […] Sulla ricerca ci saranno fondi record.” Speriamo che questa sia la volta buona.