Questo è il mio nome | quando Nessuno diventa Odisseo

La sera del 13 di ottobre, al teatro S. Marco di Trento, lo spettacolo teatrale Questo è il mio nome della compagnia reggiana del Teatro dell’Orsa ha inaugurato la ventesima edizione del Religion Today Filmfestival.

Ogochukwu, Ousmane, Djibril, Ezekiel, Lami, cinque volti, cinque storie che sono, in fin dei conti, quelle di migliaia di persone. Questo ci raccontano i giornali. Le cose non stanno così, ogni vicissitudine è diversa, ogni sofferenza è unica, ogni viaggio è irripetibile. Sentiamo il bisogno di raccontarci che le storie dei migranti sono tutte simili, perché se dovessimo realmente figurarci quei dolori tra loro così diversi, eppure tutti così intensi, allora soccomberemmo schiacciati dall’orrore.

Lami, Ezekiel, Djibril, Ousmane, Ogochukwu, cinque sorrisi che bastano a commuovere.

“Siete felici?” chiedono sorridenti al pubblico i cinque giovani africani in coro. “Siete felici?” di nuovo, incalzanti nei confronti di un teatro in imbarazzo, che non sa trovare le parole per rispondere. “Noi siamo stati felici” ci confessano. In una sola battuta, in un solo dialogo con il pubblico, Questo è il mio nome è riuscito ad annientare la retorica che da anni ruota attorno al tema della migrazione, una retorica che appare innocua, sottotono e che dipinge il migrante come un essere che scappa da una casa che odia, che non gli ha mai donato  gioia o letizia, figuriamoci felicità. Ma questi cinque africani, provenienti dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio, dal Mali e dal Gambia sono stati felici. La terra che ha dato loro i natali non rappresenta solo una tenebrosa agonia da cui scappare, ma è Casa.

Eppure, come racconta lo spettacolo, quando è la stessa tua casa a sussurrarti di andartene, di metterti in salvo, di cercare un futuro diverso, magari migliore, non si può restare inermi, perché è la supplica di una madre che prega il figlio di salvarsi. “Nessuno mette i suoi figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” racconta al teatro la voce narrante.  Allora regali i tuoi ultimi sorrisi ai tuoi genitori, riservi qualche abbraccio ad amici e amori che non rivedrai più, sistemi i tuoi pochi effetti in una valigia e cominci a correre.

E i corpi di questi cinque attori straordinari, in Italia da soli due anni e già ottimi padroni dalla lingua italiana, in effetti paiono correre per la scena: si muovono convulsamente, cantano, saltano, guadagnano il piccolo palco del teatro S. Marco e lambiscono con le loro movenze un pubblico che pare assorbito dai loro racconti.

La compagnia del Teatro dell’Orsa, con la splendida regia di Monica Morini e Bernardino Bonzani, ha portato questi cinque ragazzi africani a raccontarsi in modo originale e autentico attraverso il teatro. L’aspetto più interessante dello spettacolo, oltre al sorprendente talento dei giovani emigrati, è stata la scelta registica di fare comparire sul palco nella quasi totalità delle scene  tutti e cinque gli attori insieme. Questo azzardo teatrale si è rivelato di assoluta efficacia e i giovani attori hanno dimostrato di essere in grado di gestire il palcoscenico da veri professionisti, senza mai mettersi in ombra gli uni con gli altri, rispettandosi vicendevolmente e mostrando una sinergia di cui è raro godere persino in spettacoli interpretati dai più stimati nomi del teatro italiano.

Dario Fo, alle telecamere di Pino Strabioli, confessò una volta la costante richiesta di semplicità e sintesi con cui la moglie Franca lo tormentava durante la stesura dei loro spettacoli. Quella stessa semplicità, quella stessa sintesi che Franca Rame richiedeva incessantemente al proprio marito hanno trovato piena espressione in Questo è il mio nome: uno spettacolo semplice  e per nulla banale, privo di fronzoli autoreferenziali e retorici, ma diretto e al tempo stesso delicato. Questo è il mio nome è, credo, uno spettacolo che ha molto da insegnare, anche se – mi pare di poter sostenere con serenità – non ne ha l’ambizione, come spesso succede con i migliori maestri.

Come in più occasioni ha ricordato Monica Morini, nella Carta dei cacciatori del Mali, risalente al XII secolo, si legge “Una vita è una vita, ogni vita vale”. Nello spettacolo è Djibril a pronunciare queste parole, in un momento toccante della rappresentazione. Il Mali, la sua terra natale, secoli prima della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino ha adottato questo principio come base della propria cultura e il principio risuona ancora sulle labbra di un africano oriundo del Mali: l’effetto che provoca è indescrivibile.

Lo spettacolo è stato fresco, brillante, dinamico, per lo più divertente; ora gli applausi, ora le risate di un pubblico in totale empatia con le storie raccontate hanno interrotto a più riprese la rappresentazione. Le canzoni tradizionali africane cantate dagli attori cozzavano, in un’ antinomia che poi si scioglie in connubio, con la voce di Ezekiel, che ha intonato a cappella due canzoni popolari italiane (Mamma mia dammi cento lire e Il Ballo di Simone).

Alla fine dello spettacolo la regia e gli attori hanno offerto al pubblico una tazzina di delizioso e dolcissimo tè alla menta. Si è creata così un’atmosfera distesa in cui gli spettatori hanno avuto modo di confrontarsi con i ragazzi africani, oltre che con Monica Morini e Bernardino Bonzani, i due registi.

Nel confronto, in cui ognuno  degli attori ha avuto modo (chi più chi meno) di far sentire la propria voce, è risultata particolarmente significativa una riflessione del loquace Ezekiel.

“Cento anni fa molti italiani sono andati in America”, ha iniziato il giovane gommista, “Ci sono ancora italiani in America?” ci ha chiesto. In coro il pubblico ha risposto un convinto “sì”. Ezekiel sorride. “NO!” ha urlato “quegli italiani adesso sono americani! Così anch’io sarò italiano e quelli che verranno dopo di me saranno italiani, noi faremo parte degli italiani di domani”.

Vedere questi volti sorridenti nonostante le sofferenze subite mi ha scosso, e ha scosso le fondamenta stesse del teatro; era una sensazione palpabile, nella sala la abbiamo avvertita tutti.  Ezekiel, mentre racconta della sua storia nel dopo spettacolo, si commuove, dice di non riuscire a continuare il racconto,  eppure sorride, continua a sorriderci.

Ed è con le voci sorridenti di Ezekiel e di Ousmane e di Lamin e di Djibril e di Ogochukwu che vi replico la domanda che ha bloccato il pubblico, che lo ha fatto boccheggiare per qualche minuto sulle comode poltroncine del S.Marco, una domanda certo destabilizzante quando a portela sono cinque richiedenti asilo con un sorriso disarmante e occhi nei quali puoi vedere ancora il dolore patito: “ E voi? voi siete felici?”.

Fabio Bulgarini

Studente magistrale di Filosofia all'Università di Trento; interessato di islamistica, storia della filosofia medievale e religionistica.

More Posts

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi