Coez: luci e ombre
DI Maria Sabata Di Muro
Non passa giorno che le nostre bacheche su Facebook non siano invase da condivisioni di amici di canzoni del famigerato Coez. In più il suo tour ha fatto sold-out, tanto che ci abbiamo anche provato a trovare un misero posto al Sanbapolis, qui a Trento, dove sarà ospite questo giovedì 9 novembre: abbiamo fallito altrettanto miseramente.
Sorge spontanea la curiosità di approfondire la sua musica, dopo aver passato l’estate scorsa rintronati dal suo Amami o faccio un casino, indiscutibilmente il tormentone che ci ha assillato dal momento della spesa al supermercato a quello del calcio balilla con gli amici in spiaggia. Ma chi è Coez? Qual è la ragione del suo successo inaspettato e cosa lo differenzia da altri artisti emergenti del panorama musicale italiano?
All’anagrafe Silvano Albanese, nato nella provincia di Salerno ma cresciuto a Roma, alle spalle un passato da writer; a 19 anni decide di avviare un altro tipo di carriera. Per sua fortuna questa è la mossa vincente. Dopo aver fatto parte di un paio di gruppi, decide di “mettersi in proprio” e far carriera da solista. Produce un primo album, Figlio di nessuno, ma il suo primo successo è Non erano fiori del 2013, che vede Riccardo Sinigallia come suo collaboratore nella scrittura dei testi. L’artista romano sperimenta postando singoli su Youtube, metodo che in realtà è abbastanza diffuso oggigiorno. La nuova strategia di marketing si serve di questo canale di diffusione, dopo il declino dei Compact Disc, efficace per creare l’hype dei fan.
Dell’album fanno parte pezzi come Stai lontana da me e Ali sporche, pezzi che hanno ritornelli semplici, poco pretenziosi, mentre l’album nel complesso è un album autobiografico. Questo lavoro passa in sordina, per la maggior parte di noi, o meglio per la maggior parte di chi non si interessa del genere. Comincia intanto a delinearsi un profilo artistico interessante: in Non erano Fiori ci ritroviamo lo stesso Coez che con Barceloneta e altri pezzi del genere farà il tutto esaurito, quel Coez che farà milioni di visualizzazioni e che comparirà sulle nostre bacheche di Facebook incessantemente. Ma c’è di più, sfidiamo chiunque a non canticchiare le sue canzoni, basta anche un solo ascolto. Da questo album si capisce già che il ragazzo di Nocera Inferiore avrebbe fatto strada. Il singolo stesso Non erano fiori è un pezzo carino, con un ritmo tranquillo, pop, allegro. Coez fa di questo connubio fra pop e rap il suo punto di forza e cavalca l’onda di un periodo di grande successo del genere stesso. In particolare fa parte poi di un filone musicale che ha mescolato il pop alla musica trap che ha origine in America, una branca del rap che prende il nome dalle zone periferiche di Atlanta in cui la droga veniva consumata e venduta. A questo filone appartengono i simpaticissimi Carl Brave x Franco 126, quelli di Pellaria e Noccioline, romanacci anche loro, gli stessi con cui Coez stesso ha collaborato in Barceloneta.
Sfidiamo chiunque poi, a non identificarsi con questa immagine di lui, antieroe del quotidiano, che ne emerge. Questa immagine di ragazzo, ormai trentenne, che vive alla giornata, o meglio alla nottata, fra hangovers e Occhiali scuri, fra un like e un amore finito. Non fa alcuna riflessione sulla società, la vive e basta e la descrive così com’ è senza usare virtuosismi, né fare grandi giri di parole. Chiaro, Coez è un ragazzo di borgata romana, e si sa, la borgata romana non è proprio il kindergarden in cui un bambino sogna di crescere. Per questo al centro dei suoi testi ci troviamo Costole rotte, notti passate in commissariato, a ricordarci che lui prima di diventare icona pop era comunque un rapper, un ragazzaccio.
Il fatto che nei testi non ci sia nient’altro oltre al vissuto personale, seppur problematico, sicuramente fa riflettere se si pensa ad un’artista che dovrebbe rappresentare un po’ la sua generazione. Possibile che la nostra generazione artisticamente non abbia nient’altro da dire? Forse che il punto di vista di chi scrive è offuscato e figlio di un cantautorato italiano di un altro genere, in cui la poesia spesso si confondeva con i testi e in cui si aveva questa sfrenata voglia di dire, di contestare, e dal punto di vista stilistico si faceva attenzione alla metrica a volte, anzi spesso, a scapito dell’orecchiabilità. Qui l’orecchiabilità prevale invece e allora un concerto di Coez può sicuramente diventare un bel grande momento di aggregazione, di canto a squarciagola e sicuramente come scacciapensieri funziona. Pensiamo alla vita di ogni universitario medio, divisa fra giornate piene di lezioni ed esami, ad arrabattarsi nelle piccole difficoltà del quotidiano. In questo ci si riconosce nel romanzo di formazione che presenta Coez, canzone per canzone, album per album e ci si riconosce nelle sensazioni, nei flussi di coscienza, perché crediamo che spesso si ascolti e si ami un po’ quello che ci rappresenta, in cui ci rivediamo e che sentiamo di condividere. Resta la semplicità dei testi, la mancata ricercatezza nel lessico, frutto di una società di millennials superficiale che non ha niente da raccontare oltre sé stessa, oltre alla storia d’amore finita male, al rapporto coi social, al triangolo amoroso. E, non si può fare altro che descrivere questa società, in base all’idea che le forme d’espressione sono sempre figlie del loro tempo. La musica di Coez sposa perfettamente questo concetto.
Certo, quando era giovane Guccini erano altri tempi: ai suoi esordi il cantautore bolognese aveva circa la stessa età del romano, ma nonostante ciò non si è mai esentato dal fare canzoni impegnate. Per rimanere nello stesso genere, lo stesso rap si è posto sempre in contrasto con i luoghi comuni, criticando aspramente la società, critica che invece in Coez resta defilata: come se ogni singolo fosse avulso da ogni genere di contesto, chiuso in un egoismo e in una superficialità che se davvero ci caratterizzassero sarebbe spaventoso. Coez oltre ad essere antieroe, anche dagli album successivi, ne esce fuori come anti-rapper. Ma ci sta bene, perché in realtà il profilo che il cantante romano ha voluto mantenere in questo senso è sempre stato un profilo basso, non è mai stato pretenzioso, ad onor del vero. Lui stesso non si è mai dato una definizione, non c’è un’etichetta che possa identificarlo, ed è forse stata questa la chiave del suo successo, stare un po’ al di sopra delle categorizzazioni – musicali si intende.
Inoltre abitudine di questa nuova generazione di cantautori è il richiamare simboli della generazione dei trentenni che sicuramente facilitano l’aggregazione attorno al testo: lo ha fatto Brunori Sas, lo fa chiunque. Gli anni 90, la nostalgia del decennio passato, le Camel, le Winston, Notte Prima degli esami citata da Coez in Buona Fortuna e sembra sempre la storia di chi è costretto a crescere ma non ne ha voglia.
Le camel blu le fumi ancora?
Nuovo tattoo, quanto ti dona
Quanto fa male scriversi addosso
L’amore uccide, il mondo è nostro
Dimmi di me che ti dicono
Tu mi conosci ed è ridicolo
Continuo come sempre in bilico
E non mi lego a niente, libero
E non lo so dove sei, se da te piove forte come qua
O se va tutto okey.
(da Lontana da me)
Stai lontana da me, per fare un esempio, ha un ritornello semplice e risulta un po’ ridondante nella scelta tematica del finale di un amore, tema inflazionato nei suoi testi. In Ali sporche la rima è semplice, ogni tanto c’è un anacoluto, una parola in inglese, niente di più, su sintetizzatori che la fanno da padroni. Ma è impossibile quasi non intripparsi anche per i non amanti del genere. Il suo intento non è sicuramente quello di fare musica impegnata, lo abbiamo capito. Si vede invece la voglia di un ragazzo di raccontarsi all’ascoltatore e la sua semplicità. Il suo non essere impegnato “civilmente” spiazza alla fine, questo gli va riconosciuto. Lo dice lui stesso: Ho scritto t’amo sulla sabbia, avrei potuto fare di meglio, in Amami o faccio un casino. Cantare la normalità è poi così male ci chiediamo? Siamo allora profondamente scissi fra il cuore e la razionalità? Siamo scissi fra l’orecchiabilità e la bravura per la metrica? Possiamo avere l’uno e l’altro insieme nel panorama musicale italiano o dobbiamo per forza scegliere? Sarà che dobbiamo accettare che il gergo di Coez, il colloquiale, ormai è l’unica forma di espressione a cui possiamo aspirare. Forse si, e la colpa non è assolutamente e solo di Coez. Ma poi alla fine, ci viene in mente che molti di noi sono cresciuti con gli Articolo 31, tutti abbiamo cantato almeno una volta le loro canzoni senza porci ulteriori problemi di contestualizzazione e di significati nascosti, e sarà forse che invecchiando l’orecchio s’affina e si pretende troppo dall’artista.
In From the rooftop album successivo ci sono alcune cover, Cosa mi manchi a fare di Calcutta è una di queste, e alcuni remake delle canzoni del rapper romano. Le canzoni sono rivisitate e si nota prerponderante una sperimentazione di generi. Apprezzabile dal punto di vista della tecnica è il riadattamento di alcuni pezzi su basi diverse da quelle previste originariamente, che rende Coez a questo punto un musicista a tutto tondo.
Grande boom è l’album Faccio un casino: è un album dolce, ci sono più intermezzi di piano e vi si trovano dediche d’amore speciali, fra cui quella alla sua mamma. L’artista è di nuovo spiazzante, quasi commovente. Coez si mette a nudo in Yo mamma e non ha più paura di presentarsi come ragazzo dal cuore d’oro, non è più il ragazzaccio, il writer arrabbiato. Inermi chiniamo il capo e non c’è niente da fare, questo ragazzo ha fatto centro, nonostante tutto. Come quando in Parquet non ha paura di fare riferimenti erotici frammisti a luoghi comuni romantici: Coez non ha paura della semplicità né di risultare scontato.
La mia gente è il mio quaderno dice in Mille fogli, dichiarazione di poetica, mentre ripete l’ho fatto per me. Di fronte a questa dichiarazione,a questa confessione così onesta, non possiamo che dire che nel bene e nel male, la sua musica non è poi così male. Intanto speriamo che il ripasso vi sia servito per il concerto, che ci andiate carichi, perché ogni tanto, un momento di spensieratezza e di cazzoneria fa bene a tutti: non c’è modo migliore che trascorrerlo cantando, e usando la musica come sottofondo. Perché la lezione che ci vuol dare Coez è che sì la vita fa schifo, se cresci senza un padre, in una società in cui essere è apparire, se non riesci a trovare la via e diventare adulto ti spaventa, ma che non c’è ragione per non cantarne, per non ballare su ritmi divertenti.