Finchè c’è prosecco c’è speranza. La sostenibilità sta tutta in un calice.
di Erica Turchet
Martedì 7 novembre si è aperto il festival cinematografico Tutti nello stesso piatto che durerà fino a domenica 26 novembre. Il festival organizzato dalle associazioni Mandacarù Onlus e Altromercato vedrà proiettati in diversi punti di Trento (cinema Astra, Teatro Sanbapolis, MUSE e Teatro Sociale) e di Rovereto (Auditorium Melotti) film provenienti da quasi tutti i continenti e permette di discutere di temi centrali del nostro tempo come la biodiversità, lo sviluppo sostenibile, i cambiamenti climatici, la disparità di diritti tra nord e sud del mondo, focalizzando l’attenzione sul cibo. In particolare questa edizione di Tutti nello stesso piatto si occuperà di Giappone, cambiamenti climatici, orizzonti latini, cibo e diritti umani, la scienza nel piatto e le culture del cibo. Il festival inoltre apre un ulteriore riflessione, quella della funzionalità del cinema, inteso non come mero intrattenimento, ma come strumento di indagine della realtà. Documentare e indagare la complessità e la contraddittorietà della produzione del cibo, possono dunque risvegliare la coscienza del consumatore e portarlo a fare scelte consapevoli.
Visti i presupposti abbiamo quindi deciso di farci un salto…
Al tempo dei salutisti, “del mondo di tofu e sietan” degli hipster (per dirla come lo Stato Sociale),
del vino biologico senza solfiti e dell’acqua gluten free, ci vuole coraggio a fare un’ode al prosecco
accompagnato dal pane e salame, come quella del regista Antonio Padovan nel film Finchè c’è
prosecco c’è speranza, tratto dall’omonimo libro di Fulvio Ervas. Ambientato tra i colli veneti, della zona del prosecco l’ispettore Stucky (Giuseppe Battiston) si trova ad indagare sul suicidio plateale del Conte Desiderio Ancillotto (Rade Serbedzjia), affascinante e stimato produttore di prosecco della zona. L’arma del delitto è un mix di farmaci e un’intera bottiglia del vino del produttore, dove è apposta la frase “Bevuta nell’ultimo giorno di battaglia” al posto dell’etichetta e proprio il prosecco sarà il fil rouge dell’indagine dell’ispettore metà veneziano e metà persiano, che non ha mai capito niente di vino.
Perché Ancillotto, “gente seria” come lui, come lo definisce l’oste di fiducia, si è tolto la vita? Cosa
significa quella frase?
L’ispettore non farà in tempo a dichiarare risolto il suo primo caso, che inizieranno a susseguirsi una serie di omicidi di uomini che il conte odiava quando era in vita, omicidi legati al cementificio del paese. Tra i filari d’uva, cantine segrete, confraternite di prosecco e incontri con personaggi misteriosi, l’imperterrito ispettore inizierà a conoscere la vera natura di Desiderio e ciò che gli stava più a cuore: il ripetto della sua terra.
Una terra che gli è stata donata dal padre, ma che ha richiesto il duro lavoro di intere generazioni, a
cui non può chiedere più di quanto gli dia, perchè come ricorda il saggio oste “il Conte preferiva
poco, ma buono”. Proprio dal rispetto della terra il regista inizierà a trattare di un tema ben più ampio (che anche gli indie estimatori di tofu biologico approveranno), ossia la sostenibilità, intesa non solo nel rapporto tra uomini, ma soprattutto in quello tra uomo e natura; solo infatti richiedendo non più del necessario alla terra, senza l’utilizzo di un’ agricoltura di tipo intensivo e rispettando i lenti ma naturali tempi di crescita, l’uomo potrà vivere pacificamente con essa e con tutti gli altri esseri umani.
Sostenibilità intesa dunque come unico e solo modo per poter vivere, ma anche come unico modo
per amare. Eh già, perché la vita del Conte Ancillotto è anche una storia d’amore per le donne, per la figlia, per il prosecco, per la vita e infine per la sua amata terra, un amore struggente e doloroso,
che lo porterà a combattere come un partigiano fino “all’ultimo giorno di battaglia”. Questo amore viscerale per il proprio territorio si riflette sulle meravigliose riprese dall’alto delle colline del territorio di Valdobbiadene e dei peculiari paeselli arroccativi in cima, accompagnate dalle musiche di Theo Teardo. Il regista inoltre attraverso una straordinaria fotografia di filari d’uva, ville di campagne, terrazzamenti costruiti grazie all’impegno e la dedizione di generazioni di viticoltori veneti e interni delle famose osterie (“la cosa più bella di questo paese”) e delle cantine, valorizza lo straordinario patrimonio enologico del coneglianese. La pellicola va anche oltre la mera valorizzazione territoriale,essa ha il pregio di mostrare il Veneto come una terra aperta anche
alle altre culture, perché esse hanno aperto le porte ai veneti durante i periodi di immigrazione nel
sud America dei primi del ‘900 e la scelta di porre Stucky ,che è metà persiano e metà veneziano,
come protagonista non è casuale, ma è affine alla condizione del regista. Antonio Padovan infatti
vive da dieci anni a New York ed è rimasto affascinato dal paese che dà a tutti la possibilità di avere
successo, allo stesso tempo però è rimasto legato alle sue origini. Il progetto cinematografico nasce
proprio da quella nostalgia per le colline e per i campi che il regista vedeva dalla sua scuola a
Collalbrigo, come ha affermato in un’ intervista alla Tribuna di Treviso e il film “…con molta
modestia vorrebbe essere un atto d’amore alla mia terra, come Woody Allen, fa con Manhattan”.
Il lungometraggio, assolutamente godibile, si lascia dietro il retrogusto di quel sapore tipico del
prosecco di Valdobbiadene, un po’aspro, ma le cui bollicine rinfrescano il palato e rendono soddisfatti gli anziani veneti che giocano a briscola in osteria. È un gusto speciale quello del prosecco, quello dell’amore per la vita e la cura per la propria terra.