“L’assommoir” in un Frappuccino – e se il destino della nuova classe disagiata toccasse all’Universitas?
“Cosa sta dipingendo Honorè Daumier?” chiede Giovanni ad Emile, il frappuccino nello starbucks al 26 in Avenue dell’Opéra è identico in tutto il mondo, sublime respiro internazionale. “Mi ha riferito che dopo un viaggio in Italia a bordo di un regionale, ha scelto di dedicare un’opera ai giovani universitari del tuo Paese, lo intitola “Il vagone in terza classe”.
Chissà cosa scriverebbero oggi Emile Zolà e Giovanni Verga. Amici e colleghi nel narrare la “società disagiata” di fine ottocento. Oggi sul tavolo di uno Starbucks, inviterebbero sicuramente anche Ventura al frappuccino pomeridiano, che ha tanto il sapore di quell’internazionalizzazione che finisce per mettere le ali del non ritorno a noi giovani laureati.
Anche io come Emanuele Pastorino mi incardino nella discussione aperta brillantemente dal caro amico Martino Mancin.
L’Assommoir dei millennials prende luogo nelle grandi città ma non risparmia la provincia. Oggi Zolà, ne “L’Ammazzatoio”, con tutta probabilità sceglierebbe un’altra cornice per Gervasia:
Ore 7.00, Gervasia si alza e da Gessate prende la metro per arrivare a Porta Venezia, la sua scrivania va prenotata giornalmente, il suo stipendio è alto rispetto alla media dei suoi colleghi, laureati in giurisprudenza, praticanti non retribuiti che lavorano in provincia. Lei a Milano viene pagata eccome: 1300 euro, 13 ore al giorno di media, disponibilità il sabato e la domenica opportuna (leggasi obbligatoria). A 26 anni “deve fare la gavetta” e per la famiglia non è certo ora il momento. Sul contenuto della parola “gavetta”, oggi, saremmo tutti chiamati ad adottare una sana vena di verismo, o realismo, e guardare con lucidità e opportuna dose di coscienza ciò che ci viene prospettato.
“Il quarto stato” oggi ha la laurea in mano, non parla, non alza la voce e non cammina. Studiamo, ci laureiamo (tendenzialmente in ritardo, di un anno o due), dimentichiamo ciò che abbiamo studiato, e veniamo assunti per 800 euro al mese da qualche “Big firm” o società di consulting, gli stessi che a 200km dal nostro confine pagano il doppio, triplo o quadruplo ad una quasi parità del costo della vita di Milano o Roma.
Parto da ciò che ho in casa: uno studente che si laurea in giurisprudenza in Italia, nella migliore delle ipotesi economiche, fa il praticantato per 15 000 euro all’anno, lordi, a Milano.
Diversamente lo fa gratis. Di anni ne abbiamo 26, zero contributi versati ed un investimento che lo Stato e le nostre famiglie hanno fatto su di noi che poco consideriamo e soppesiamo. Diventiamo avvocati, o consulenti in qualche azienda o banca, e lo stipendio a 33 anni arriva a 30 000 euro all’anno, lordi. A Milano. E dall’investimento che Stato e famiglia hanno fatto su di noi non rientriamo. A Parigi le stesse banche, le stesse aziende, gli stessi “Big Firm” pagano i nostri coetanei, compari di Erasmus e doppie lauree con lo stesso grado di esperienza, il doppio. A Londra lo stipendio di partenza di un associate negli stessi studi di cui sopra è di 85 000 sterline all’anno (circa centomila euro lordi) – età media 26 anni. Noi ci facciamo mantenere l’appartamento a Milano dal papà, perché con quei 1 300 euro al mese a Milano non ci vivi proprio. La soluzione? Scappare verso altri lidi.
Ecco, qual è ora il compito del giovane della “classe disagiata” che “milita a sinistra”?
Pure per chi non sta sinistra nel “fare fronte comune” di Emanuele, è in grado di riconoscere una necessità che sa di auto-sostentamento; dove per “fronte comune”, oggi più che mai, significa essere chiamati a porre in discussione l’ordine di valori e priorità sociali, interrogandosi sul “chi” sia l’organo deputato ad assumersi l’onere di questa attuale emergenza sociale.
Sull’onda di questa riflessione, che dal sarcastico scema al pragmatico, un’ istituzione a noi particolarmente vicina dovrebbe fare capolino. Se è vero che la metà dei diplomati si reca all’Università (più di 1 milione e 600 mila gli studenti ogni anno – Sole 24 ore 2 Gennaio 2017 – dati Istat 2015), nell’era di quella che Sabino Cassese definisce “Università di massa”, è possibile attendersi da questa istituzione l’assunzione di un’onere sociale che oltrepassa la tradizionale visione secolare che riconosce l’Universitas quale mero luogo di formazione, del culto del sapere, e dell’attività di ricerca?