La memoria breve.
Dobbiamo davvero parlare della Polonia.
Sì, della Polonia: quel luogo magico, a metà tra realtà e fantasia, che vive di un’eterna contraddizione, tra Occidente e comunismo, tra vacanze low cost e viaggi della memoria, tra “progressismo” (certo, uno tutto particolare: quello degli anni ’80 di Solidarność) e autoritarismo, questo non particolarmente originale e decisamente più recente. La Polonia, quel luogo dove a campagne di forte compressione della libertà di stampa si affianca la mobilitazione di un vasto mondo femminile e femminista che ha respinto leggi sull’aborto e sulla libertà di scelta dal sapore medioevale. Quello stesso Paese, nella notte tra mercoledì e giovedì, ha visto l’adozione di una legge “che vieta di accusare la Polonia di complicità nell’Olocausto e di riferirsi ai campi di concentramento nazisti in Polonia come “polacchi””. Non solo: dire che i quei campi (situati in Polonia) sono “polacchi” potrebbe costare fino a 3 anni di carcere. A ben vedere i motivi di questo fastidio sono dettati dal fatto che, durante l’occupazione nazista, la Polonia – di fatto – non fosse uno Stato e che quest’espressione potrebbe finire con l’essere ““un grave e pericoloso errore che deforma la verità storica” e insinua il dubbio sulle responsabilità dello sterminio, “offendendo la memoria dei milioni di cittadini polacchi, ebrei e non, vittime del nazismo””.
Non sono parole mie, ma dell’ambasciata polacca in Italia che, nel 2016, aveva chiesto a tutti i giornali e le agenzie di stampa nostrane “di non usare espressioni come “lager polacco” o “campo polacco”“. Quindi, se tutto ciò può anche essere ritenuto “ragionevole” cosa c’è di scandaloso in questa legge? Sostanzialmente il fatto che si prenda a pretesto un “equivoco linguistico” per affrontare e – di fatto – riscrivere un pezzo di storia. Certo, i campi di concentramento erano “nazisti in Polonia” e non “polacchi” in sé e per sé: questo è chiaro a chiunque abbia aperto un libro di storia. Però, appena sotto la superficie di questa legge, in molti hanno letto un tentativo di far passare il messaggio di una Polonia (anche storicamente) non-antisemita: se, durante la guerra, il governo polacco in esilio fu il primo a denunciare la barbarie della soluzione finale, se molti polacchi hanno salvato moltissimi ebrei dallo sterminio, è vero anche che, prima e dopo la guerra, la Polonia ha manifestato una fortissima spinta d’odio verso gli ebrei. Certo, non era motivata dal furore ideologico nazionalsocialista. Certo, non ha portato al dramma della Shoah. Ciononostante, però, “questo antisemitismo era talmente forte che alcuni polacchi, nelle campagne, arrivarono a massacrare i loro vicini ebrei durante la guerra e anche nell’immediato dopoguerra. Alla fine degli anni sessanta il partito comunista organizzò una campagna antisemita così violenta che la quasi totalità degli ebrei polacchi sopravvissuti al nazismo fu costretta a lasciare il paese“.
Dunque: cosa rappresenta questa legge? Il fatto che i polacchi non vogliano essere ricollegati al dramma della Shoah al punto da punire penalmente chiunque lo faccia? Probabilmente, in parte. Oppure si tratta di un’operazione più ampia, finalizzata a lavare la faccia di un governo che troppo spesso ha portato avanti campagne discriminatorie e liberticide? Se anche questo non è l’obiettivo primario di questa legge, il fatto stesso che sia stato usato quello strumento e – molto di più – la previsione di una pena detentiva sono profili piuttosto allarmanti. Quello che viene punito non è certo una qualche forma di istigazione a delinquere: no, si sanziona un dannato equivoco linguistico. Da qui, è difficile non pensar male e credere che Israele non abbia poi tutti i torti a dire che questa legge è paragonabile ad “un caso di negazione della Shoah“.
Questa legge non è nata per caso ma è il frutto di un lungo cammino: se, nel 2007, l’allora presidente polacco Donald Tusk (uno che certamente non ha dimostrato particolare apertura mentale o progressismo su diversi temi da quando è Presidente del Consiglio Europeo) aveva dato il via alla realizzazione di un museo sulla Seconda Guerra Mondiale che raccontasse gli effetti che ha avuto sulla popolazione civile, uno dei più coinvolgenti mai realizzati. Un’opera d’arte. Ecco: quello stesso museo è stato preso d’assalto dalla retorica nazionalista dell’attuale partito di governo, il PiS (Libertà e Giustizia), che “[r]improvera al museo una mancanza di patriottismo: dovrebbe parlare di più dell’eroismo polacco, del sacrificio dei suoi cittadini e dei suoi martiri, della carica della cavalleria contro i carri armati tedeschi, dei ventimila ufficiali uccisi dai russi a Katyń, dell’insurrezione di Varsavia, e meno degli ebrei, per esempio”.
Senza voler necessariamente scomodare il totalitarismo del secolo scorso, la riscrittura del passato è tradizionalmente il primo passo sulla via dell’affermazione di regimi autoritari. Così è stato in Turchia, così è in Ungheria, in Bielorussia, in Polonia e così è in Repubblica Ceca. Tanto per citarne alcuni: Turchia a parte (i cui problemi sono stranoti e sotto gli occhi di tutti), gli Stati ex-sovietici, questi magici paesi dei balocchi per il nazionalsocialismo d’Europa, sono la sintomatologia più evidente di un male che affligge tutti. Nessuno ne è immune: certo, la colpa può essere attribuita alla debolezza dell’Europa, alla crisi finanziaria e anche alla fine della contrapposizione delle ideologie (anche se forse non è così per tutti). Ma, forse, non è così sbagliato provare a trovare quella responsabilità nello stato di abbandono in cui abbiamo lasciato la nostra Storia.
A nemmeno una settimana dalla Giornata della Memoria, una ricorrenza internazionale, istituita con una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005 (già questo ritardo dovrebbe dirci qualcosa sul rapporto problematico del mondo con la propria Storia), la Polonia, drammaticamente al centro di quelle vicende, decide di passare il bianchetto, di provare a mettere una pezza sull’orrore che è sulle spalle di tutti. E non è un male solo polacco: quante volte, negli ultimi anni, si è parlato delle strumentalizzazioni, delle figuracce, dell’ipocrisia che affligge le celebrazioni del 27 gennaio?
“[I]l giorno della memoria somiglia a un telo generoso steso a coprire una rete di silenzi e negazioni“: un telo che può e deve essere strappato smettendo di fuggire dal nostro passato