Intervista a DubFiles: Il Reggae non è morto

DubFiles è uno di quegli artisti poliedrici che non smette mai di stupire. Dopo il lungo trascorso nella band che ha portato il reggae al grand pubblico italiano, ossia gli Africa Unite, Paolo Baldini ha deciso di lavorare a tanti nuovi progetti. Nato come bassista, può vantare parecchie collaborazioni, tra le quali figurano due pesi massimi della scena musicale italiana alternativa: i Mellow Mood ed i Tre Allegri Ragazzi Morti.

Dopo aver fatto ballare tutta la pista dello Smart Lab di Roverto, lo trovo indaffarato a smontare tutti i macchinari del mestiere, così abbiamo iniziato a parlare…

Parto con una domanda a bruciapelo: ha ancora senso ad oggi parlare di reggae music?

Lo stiamo facendo (ride) quindi direi assolutamente sì! Il reggae, se posso permettermi di esprimere un giudizio personale, è uno di quei generi che crea un certo tipo di dipendenza ai suoi consumatori. Questa cosa la si nota nei rapporti duraturi che instaura proprio con il pubblico: poiché l’esponente “reggae addicted” ha fame di reggae, e come diceva Marley: chi lo sente, lo sa. Questo è un genere musicale immortale, che ha attraversato indenne diverse fasi, anche quella mainstream: ci sono stati casi di artisti reggae che sono riusciti a bucare la coltre dell’underground…

A me viene subito in mente al proposito Damian Marley, che tra le altre cose ha collaborato recentemente con Jay-Z…

Dici bene, ed è curioso se ci pensi! Mi spiego meglio: noi ne parliamo come fenomeno underground, eppure ad oggi Bob Marley è l’essere umano più famoso del pianeta. Ci sono zone della Terra in cui non sanno chi sia Gesù Cristo, ma molto probabilmente sanno chi è Bob Marley! Questo fa capire che stiamo parlando di qualcosa di unico: la prima e vera cultura globale del Terzo Mondo. Non proprio una cosa underground…

Quindi, qual è secondo te il segreto di questo successo duraturo della musica reggae?

Dopo diversi anni di molto consumo e condivisione di questa cultura, mi sono fatto idee abbastanza complesse al riguardo. Però fin dall’inizio, da quando ero un fresco consumatore, ho capito che c’era qualcosa di magico, anche nel senso strettamente musicale. È un genere che ha una sua grammatica ed una sua matematica, molto definita, nonché molto difficile da decodificare. I musicisti, i grandi turnisti, che magari suonano nell’orchestra di Sanremo, non è detto che dopo anni di batteria siano in grado di fare al primo acchitto un one-drop credibile… magari poi vai in Giamaica e trovi un tassista, che non fa il musicista di professione e fa un dignitoso one-drop!

Che sia collegato alla dinamica della danza, del ballo, come arte primitiva e quindi più intrinseca nella loro cultura?

Questo succederebbe in ogni parte del mondo credo… la Giamaica è un luogo molto particolare. È un’isola molto piccola, che ha vissuto un’epopea coloniale tremenda, ha avuto poi una rinascita ed ha avuto una storia discografica che ha generato un consumo interno discografico tra gli anni ‘60 e ‘70, che è una cosa unica! Producevano dischi per il consumo locale: una roba mai successa in nessun’altra parte del mondo. C’è stato un sincretismo involontario, se vogliamo, tra la corrente rhtyhm and blues americana, il retaggio africano e la spiritualità… l’erba ovviamente. La quale ha rallentato il blue beat fino a farlo diventare reggae: nessuno ha deciso a tavolino le sorti di questo genere, però casualmente è diventato qualcosa di incredibile! Se poi te ne innamori come successe a me in gioventù, è una cosa, ma finché non l’affronti da adulto potresti anche non accorgerti della magia che c’è dietro. Invito tutti gli artisti colti, che si definiscono onniscienti nella musica (ride), di provare anche questo genere…

Una domanda invece più tecnica ora. Siamo passati dalla band, come i The Wailers, ad una composizione invece più elettronica… il reggae ha risentito di questo fatto?

Dipende, dipende… per dirti io stasera ho utilizzato un riproduttore digitale per riprodurre il suono digitale di strumenti acustici. Ho usato delle linee di basso registrate da un basso elettrico, batterie suonate con le bacchette: è una tecnica, e le tecniche si adeguano alle circostanze. Tu potresti fare con le bobine della musica molto fredda, ed invece fare col digitale musica molto calda ed evocativa… secondo me non ha molta importanza: gli strumenti che usi, così come le tecniche che adotti, sono figlie del momento storico in cui viviamo…

E le tue influenze musicali invece da dove vengono?

Io ho iniziato all’età di sedici/diciasette anni a dedicarmi a questa musica, ci sono arrivato non proprio dalle vie più consuete… tanti partono da Bob Marley e poi approfondiscono, io sono arrivato più da certe derive psichedeliche inglesi. Ho cominciato con i Zion Train ed i Revolutionary Dub Warrior per citarne qualcuno… cose molto underground e bianche, se vogliamo. Però alla fine cadi sempre nel centro: il polo gravitazionale più denso è comunque in Giamaica. A prescindere da che frontiera tu arrivi, alla fine ti ritroverai sempre ad affrontare la Giamaica, e la Giamaica di un certo periodo… a fine anni ‘60 fino all’80 potremmo dire, ci fu una rivoluzione musicale di cui paghiamo le conseguenze ancora adesso… positivamente!

Ultima domanda, progetti futuri in cantiere ne hai?

Sì assolutamente! Ne ho, e ne abbiamo… stiamo lavorando forte all’interno del nostro collettivo, La Tempesta Dub, che collega gli sforzi di più artisti, come i Mellow Mood, di cui stiamo finendo il disco, così come quello di Forelock… molto Dub è sulla graticola e pronto ad essere infornato, e poi come si dice, chi si ferma è perduto!

Quindi ci aspetta un buon 2018 musicalmente parlando?

Un ottimo 2018, ed anche 2019! (ride)

Francesco Filippini

Studente di Lettere Moderne e vicedirettore de l'Universitario

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