Studentown: l’assenza di urbanità nelle residenze universitarie
DI Anna Lanzinger, Margherita Povolato, Mattia Lenzi, Christian Salvadori, Andrea Zanotti, Margherita Maestrini con il coordinamento di Acropoli
Sembrano lontani gli anni ’60 quando l’Università di Trento, in fase di espansione e crescita, stava rimuginando su come insediarsi ed ampliarsi all’interno della città. Date le sue esigue dimensioni, nulla poteva essere più audace e rischioso che realizzare un’università diffusa all’interno del tessuto urbano in modo tale da far incontrare due mondi che non sempre riescono ad avvicinarsi: quello universitario e quello cittadino. Queste scelte sarebbero state vincenti se fossero state sviluppate consapevolmente, ma se ancora oggi stanno facendo discutere, forse quegli anni ’60 non sembrano poi così lontani.
Infatti se il modello di università diffusa si esprime al meglio attraverso una distribuzione omogenea e un dialogo aperto tra le strutture e il tessuto urbano, a Trento non si è riusciti a raggiungere questo livello. È ben evidente che la collocazione non solo delle facoltà, ma soprattutto delle altre strutture appartenenti al complesso universitario, non sia stata così efficace da far sentire tutti inclusi in un unico sistema urbano. Questo problema si riscontra in modo eclatante se si pensa agli studentati e in particolar modo al San Bartolameo. Pur non essendo troppo lontano dal centro cittadino e universitario (in un altro contesto al di fuori di Trento risulterebbe essere anche troppo vicino), a causa della sua collocazione e della sua gestione il “Sanba” è considerato un luogo lontano sia geograficamente sia psicologicamente.
Al di fuori dei suoi cancelli, si sviluppa un tessuto urbano alquanto problematico così da renderlo una cittadella chiusa su se stessa ma che da sola non può vivere. Infatti se le strutture che lo circondano sono una questura, un centro sanitario e cantine abbandonate, senza imbattersi mai in attività attraenti, bar, ristoranti, cartolerie, servizi di qualità, è ben difficile che uno studente possa effettivamente riconoscersi ed identificarsi in questo spicchio di città che nel tempo si è trasformato in un grande “quartiere-dormitorio”, un’isola urbana estranea alla città.
Come se non bastasse lo studentato è stato isolato anche dal punto di vista dei collegamenti con il centro città. Non tanto durante il giorno in cui il servizio deve garantire le corse necessarie per raggiungere facoltà e i luoghi principali, quanto piuttosto durante la sera in cui il trasporto pubblico è attivo fino alle 23.30 così da non permettere agli studenti che vi risiedono di poter passare una serata in centro senza farsi i chilometri.
Ovviamente, la scelta di collocare un sistema di housing studentesco delle proporzioni del San Bartolameo sarebbe stata impraticabile in un tessuto urbano maggiormente consolidato, causa assenza di spazio. Per cui, il Sanba era in un certo senso condannato dall’inizio a non funzionare troppo bene, soprattutto dal punto di vista dei servizi da offrire. E’ per questo motivo, tuttavia, che sarebbe stata auspicabile una maggiore lungimiranza da parte dell’attore pubblico in fase di programmazione stessa dell’opera. Il quartiere studentesco poteva essere immaginato come un hub per la socialità universitaria, venendo arricchito di servizi e strutture diffusi su tutta l’estensione del campus. Ai piani terra degli edifici studenteschi potremmo trovarci locali, ristoranti, cinema, palestre, supermercati, perfettamente accessibili a studenti e non. La locazione per queste attività potrebbe andare a coprire i costi di gestione della struttura, portando quindi ad una situazione tutto sommato conveniente, in cui gli studenti hanno più servizi ad un costo inferiore per l’attore pubblico. Questo tipo di rapporto di partenariato pubblico/privato può sicuramente apparire ingenuo ai più conservatori, ma vuole rappresentare una provocazione basata sulle considerazioni di Rem Koolhaas nel suo libro S M L XL, in cui dice che “il ruolo dell’urbanistica non consisterà nella semplice organizzazione spaziale delle attività, ma dovrà occuparsi di irrigare i territori con potenziale”.
Questo tipo di esortazione per il governo del territorio può apparire un po’ aulica, ma riesce a riassumere i limiti della pianificazione urbana tradizionale, che si è limitata a definire i perimetri entro cui collocare le funzioni, senza occuparsi della generazione di spazi di qualità, utilizzati e vissuti dalle persone. Il risultato di questo processo è oggi sotto gli occhi di tutti con le periferie residenziali, progettate in una modalità top-down che non è stata capace di intercettare le esigenze di socializzazione e interazione della popolazione. Il Sanba poteva diventare una grande casa degli studenti, un luogo dove la creatività e l’energia dei giovani potevano essere espresse in modo libero attraverso degli adeguati canali fisici. E forse oggi, invece che una casa, abbiamo un dormitorio.