Brododibecchi e altre ricette per l’autunno
di Gabriele Barichello
Domanda delle cento pistole: qual è il compito dello sportivo? Parafrasando Desiderio del Corriere incappiamo in una serie di variazioni complesse. Lo sport ha acquisito ormai un ruolo sociale, argomento centrale del dibattito contemporaneo è quindi come declinarlo nella realtà che osserviamo. Ma cos’è lo sport senza gli sportivi? Sarebbe un’entità acefala, niente più? Un’idea forse, un’utopia. Quindi sillogisticamente arriviamo al ruolo sociale dello sportivo, al ruolo educativo che queste figure esercitano, anche loro malgrado, nei confronti delle migliaia di occhi che li osservano. Loro malgrado, lo sottolineo, perché spesso si vuole fare sport in campo, non al centro del ciclone mediatico, Matteo Piano e Luca Vettori annuiscono a quest’affermazione. Si arriva però al momento dell’autocoscienza, quando si scopre, tastando la fibbia, di avere appesa una Colt ’45; un’arma quindi, il cui uso dipende sempre dall’indice che preme il grilletto: esercitare un’influenza può essere altro? Ulteriore scalino, un ruolo sociale responsabile, magari perfino utile. Promuovere acconciature improbabili, auto di lusso, stili di vita sfrenati, e perché no, anche un pizzico di evasione fiscale, ma stiamo deragliando, qui c’è anche l’artificio mediatico, perché del valore c’è, ma a quanto pare non fa share. Ma cosa spinge un ragazzo, che passa metà della sua vita in campo e l’altra metà in palestra, a dedicare il suo tempo a questioni del genere? “Il bisogno di prospettiva” sostiene Luca Vettori, “ad un certo punto si sente il bisogno di fare altro” aggiunge Matteo Piano, “come si trattasse di un’evoluzione” completa il primo. Già perché lo sportivo è sportivo, e sempre verrà ricordato come tale, ma certo sempre non potrà esserlo. Esistono esempi di atleti decotti, che con le unghie si aggrappano al campo, scivolando inesorabilmente ai suoi lati, indossando una cravatta e sostituendo alla palla un microfono: ora però immaginiamo una più nobile alternativa. Quando nasce Brododibecchi, la web-radio, nelle teste di questi ragazzi non c’erano ampie prospettive: era un modo per passare il tempo, tra un allenamento ed un altro, durante le interminabili trasferte, una scusa come un’altra per ingannare le attese. “Essere sportivi a questi livelli rischia di avere un effetto deumanizzante”, è Matteo a parlare, “incontri un sacco di persone, di tifosi, ma si ha sempre un po’ l’impressione di essere oggetto di attenzioni solo per la divisa indossata, per il personaggio che s’interpreta in campo” sottolinea Luca. In fondo cos’altro è lo sport se non una coloratissima fictio? Poco spazio quindi, se si ha voglia anche di altro, di altri. Brodo di Becchi cresce, evolve nelle loro mani, forse anche un po’ a loro insaputa: risultano simpatici, carismatici, ma l’asso nella manica è data dalla palpabile voglia di essere onesti, senza fronzoli, persone che al posto del cuore non hanno un bidone dell’immondizia. Nasce l’associazione culturale Brododibecchi, dove Cultura assume la sfumatura di “tutto ciò che genera curiosità” secondo Matteo: dall’incontro con Lola Love Atelier germoglia Robe di Becchi, un posto, interamente ideale, dove l’artigianato africano intreccia quello italiano, generando una commistione particolare, assolutamente attuale. Instagram è la piattaforma che ne permette la fruibilità, una piattaforma social che in quanto tale rende possibile molto, ostico altrettanto: “vince la forma sul contenuto, e la personalità gioca un ruolo chiave” evidenzia Luca. Si torna quindi a parlare dell’uso responsabile, un nodo che si scioglie velocemente: la responsabilità, parafrasando Baricco, è una, non ce ne sono molte. Secondo coerenza diremo quindi che un ruolo sociale responsabile, perfino utile, può trovare nei social uno spazio sociale responsabile, perfino utile. Sembra così semplice.
In un momento storico come questo, con la bufera generata dalle vicende (plausibili o meno, ci penserà un giudice) che vedono coinvolto Riace, è lecito domandarsi se è possibile un bene senza profitto. Ecco che riemerge un’eco lontana, la vecchia moda mai vintage, della filantropia: il puro e consistente piacere generato dall’aiutare. C’è ancora spazio quindi? È bello pensare di sì.
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