La Terapia della Parola – Dibattito
La parola da cui ho deciso di iniziare è “dibattito”, intesa nello specifico come dibattito politico. In merito, la Treccani recita: “discussione alla quale prendono parte i partecipanti a un’assemblea, a una seduta, a una riunione pubblica o privata, e nella quale si contrappongono e valutano idee e opinioni diverse in merito a determinati argomenti proposti o a decisioni da prendere“. Dove sta dunque l’ambiguità? Non è forse un termine dal significato univoco?
Dalla definizione sopra riportata, risulta chiaro che il dibattito sia qualcosa di positivo, o perlomeno di assolutamente necessario in democrazia, dove non vige il principio di unanimità: è infatti uno degli strumenti principali di cui la politica può servirsi per rendere partecipi i cittadini, e permettere loro di formarsi un’opinione sulle questioni che ciascun Paese si trova ad affrontare. Al suo interno vi si nascondono però due significati diversi, e non equivalentemente positivi, che il termine, nella sua generalità, non aiuta a distinguere: la dialettica e la polemica.
L’attività di polemizzare qualifica il piacere di esercitarsi nel contrasto, con un atteggiamento di critica preconcetta che svela un intento distruttivo verso l’avversario. L’ambiguità del termine sta dunque nell’incapacità di distinguere la costruttiva dialettica, anche in vivace contraddittorio, dalla negativa e distruttiva polemica. I linguisti della Scuola di Ginevra riassumono in tre punti il caratteristico procedere del metodo polemico: 1) l’individuazione di un avversario-persona, bersaglio della polemica, che spesso viene nominato, nell’enunciato, con uno o più atti di aggressione; 2) lo spostamento del discorso, dai fatti e dall’argomento originale della discussione, alle caratteristiche del bersaglio, dell’interlocutore. Le parole dell’avversario e i fatti, qualsiasi fatto, vengono analizzati e piegati, senza alcuna logica e coerenza, se non quella del fine della polemica: prevalere; 3) eliminazione completa dei fatti e degli enunciati messi a confronto, per infierire esclusivamente sul bersaglio-persona usando qualsiasi altra affermazione o fatto.
Chiunque segua gli affari pubblici, in Italia e all’estero, potrà riconoscere che il dibattito politico è quanto mai inclinato verso l’estremo polemico. Tale atteggiamento va disincentivato e criticato, in quanto contribuisce a svalutare le proposte e le idee in favore di una faida tendenziosa che poco ha a che vedere con l’amministrazione dello Stato. Qui sorge il problema dell’ambiguità: non riuscire a distinguere le due accezioni comporta una totale impossibilità ad opporsi a discussioni aggressive e scorrette senza venire, in buona o cattiva fede, tacciati di antidemocraticità; l’opposizione generica al dibattito è sì, in sé, antidemocratica, ma non lo è il desiderio di legittimarne solo la versione dialettica. Anzi, è proprio l’acritica accettazione della polemica a porsi, di fatto, in antitesi ai valori democratici, in quanto questa schernisce in modo generico e preconcetto ogni idea dell’avversario, proprio dove la votazione a maggioranza, pilastro della democrazia, è forma concreta di rispetto delle diversità ideologiche. Inoltre, va osservato che la causa del dilagare polemico risiede, in primo luogo, nel comportamento dei cittadini. Se al primo attacco personale e non inerente al merito della discussione l’opinione pubblica manifestasse un rigetto, un forte disgusto, nessuno si sognerebbe di continuare a denigrare gratuitamente l’interlocutore. Invece, il metodo polemico, legittimato sotto l’innocua forma dell’ambiguo termine “dibattito”, e rafforzato dall’efficacia che i votanti gli riconoscono, oggi fa vincere elezioni su elezioni. È possibile che i cittadini siano ormai in maggioranza favorevoli alla polemica e alla sua spettacolarità gladiatoria?