L’UniversiMario | L’insostenibile leggerezza della solitudine
Stasera, a cena, ho mangiato gli spaghetti al ragù. Erano cotti al punto giusto, e il sugo era gustoso. Ho sconfitto la fame, mentre al telegiornale qualcuno affermava di aver abolito la povertà.
Non si parla molto spesso, a tavola. Sarà perché si ha l’abitudine di accendere la televisione, quando la tavola è imbandita, e di fissare lo schermo per una mezz’oretta. Doversi preoccupare di se stessi è già sfiancante: perché creare ulteriori problemi? Si evita il confronto, ci si guarda nelle palle degli occhi, si consuma il pasto e si resta in silenzio. Si rimane soli, anche in compagnia di altri individui.
Rimaniamo soli e consumiamo: sull’autobus, la mattina, quando ci tappiamo le orecchie con le cuffie, e le lasciamo riempire ad un programma, piuttosto che da parole altrui; all’università, in aula, quando facciamo finta di ascoltare senza mai porre domande; al ristorante, con gli amici, quando fotografiamo il piatto prima di assaporare, assaggiare, sorridere. Gioca sempre in casa nostra, ma anche fuori: per quanto tempo e in quanti spazi si può restare soli, il giorno e la notte? Godiamo di una quantità già enorme e sempre più alta di relazioni interpersonali, ma non c’è stato verso di aumentarne altrettanto meccanicamente la qualità. Abbiamo sconfitto il freddo, il buio, qualche malanno, ma non la solitudine.
Non è una banalità, né si tratta di uno sterile o adolescenziale capriccio: la solitudine è un fattore dell’individualismo, e i due si alimentano a vicenda. La solitudine sostituisce la rassegnata accettazione al dolore, la disinteressata leggerezza alla carità, il sopravvivere al vivere. La solitudine ci accomuna indipendentemente da chi siamo, ma non ci associa.
In assenza di una certa diversità di stimoli ed indicazioni, tendiamo ad intraprendere le stesse vie, i soliti percorsi. Una diminuzione o una perdita di scambi reciproci uccide la persona, e fa di noi una moltitudine di personaggi. Smettiamo di comunicare, cominciamo a parlare sempre e solo a noi stessi, cercando ossessivamente la nostra immagine riflessa in qualcuno, o qualcosa. Ci accalchiamo, formando eserciti confusi e urlanti di stereotipi, che avvelenano il dialogo, sparano con la parola e feriscono con l’insulto. Nonostante ciò, continuiamo a sentirci ancora soli: la mera vicinanza alle copie di noi stessi non ci basta, non ci è sufficiente.
La malattia della solitudine è una cifra esistenziale sulle due sponde dell’Atlantico. Ci ha paralizzati nelle nostre camere da letto, mentre ci illudevamo di poter trascinare in avanti il mondo governando la barca alla bell’e meglio, evitando di volta in volta gli scogli che ci si sarebbero parati di fronte. Con presunzione, abbiamo creduto che non servisse una mappa per orientarci: ora che la nave sta affondando, ci diamo vicendevolmente la colpa del misfatto, pur non riuscendo veramente a capire cosa abbia causato lo schianto. Molti si gettano in mare per la disperazione, tentando di accaparrarsi una scialuppa, e malauguratamente scoprono che non ne è rimasta nessuna. Altri osservano la tragedia dall’oblò delle proprie stanze e ridono, gorgogliando, di chi sta annegando, con l’acqua alla gola. Alcuni cercano il capitano del vascello, e non si ricordano che tempo fa, durante una tempesta, si è arreso, e si è gettato tra le onde con la bussola in mano. Gli ultimi si sono già arresi: ormai cinici, attendono una sicura morte. Siamo alla deriva. Nell’ora più nera, trionfa la follia. Ritenendoci definitivamente condannati, spegniamo la speranza, e sfoghiamo la rabbia che ci rimane in corpo nei confronti dei presunti colpevoli della disfatta, azzerando così ogni possibilità di salvezza.
Alcune forze di governo europee si apprestano a lanciare una guerra aperta contro il ceto medio, già ridotto ad essere medio-basso, e le classi sociali più disagiate. Si varano misure che colpiscono chi già tanto paga e molto lavora, e a farlo sono coloro i quali si fanno passare per amici del popolo, magari gustandosi una bella pastasciutta al ragù, per mostrarsi normali e comuni, per imbonire l’elettorato mostrando una sensibilità popolare nei fatti inesistente. Non possiamo permettere a chi sfrutta ed isola i cittadini dei propri Stati di generare e diffondere solitudine, riempiendola a proprio piacimento di menzogna e propaganda. Noi stessi non possiamo permetterci l’insostenibile leggerezza della solitudine, ora che siamo più divisi e impotenti che mai.