L’UniversiMario | L’Italianità
Qualcuno, tempo fa, non si sentiva italiano. I prodi generali delle camicie verdi, che dovevano difendere il Po, bruciare il tricolore e martirizzare Borghezio, durante la finale del Mondiale di Germania si tramutarono in ultras francesi, pronti a morire per la gloria e il trionfo del galletto dorato. Quando Beppe Grillo trasmetteva “Io non mi sento italiano” di Giorgio Gaber, nel 2007, dal palco del Vaffanculo-Day di Bologna, attingeva a piene mani da quella moda, da quella retorica, pur da una prospettiva leggermente differente rispetto a quella dei militanti della Lega Nord: un attivista Cinque Stelle non si curava minimamente di alcuna ambizione secessionista. Malgrado ciò, era il concetto di fondo ad essere condiviso. Essere italiani, per certi versi, era una vergogna: significava possedere una disonestà connaturata nel proprio essere, e in tal senso i motti “Roma Ladrona!” e “Onestà!”, o “Vaffanculo!”, si basavano sui medesimi princìpi.
Da allora, le dinamiche e i gusti dominanti della propaganda politica si sono totalmente ribaltati. Si presenta alle menti dei cittadini un’Italia di eccellenze, dall’industria manifatturiera, all’artigianato, alla tavola, e la si erge in una posizione di dominanza assoluta: l’italianità è divenuta una fiera espressione di qualità esclusivamente positive. Diffusa e quotidiana è la gara a chi o cosa sia più “italiano”, dal cibo, all’arte, fino al comportamento di un determinato individuo, tanto che è ormai usuale assistere all’identificazione forzata di chi possa o di chi non possa fregiarsi del titolo di vero “italiano”, condotta attraverso parametri vaghi e sfuggenti da giurie popolari altrettanto indefinibili.
Mi sovvengono dunque diversi interrogativi, piuttosto enigmatici. L’italianità è un fattore positivo o negativo? L’italianità è una qualità che viene di per sé, e quindi ci caratterizza a priori? Oppure ci viene attribuita, o noi ce la attribuiamo, a posteriori, e non influenza realmente ciò che pensiamo, esprimiamo, produciamo? In generale, quanto siamo “italiani”, noi italiani?
Credo innanzitutto che, dal punto di vista individuale, l’italianità, e in generale la nazionalità in quanto sentimento derivante dall’appartenenza ad una comunità immaginata, sia una proprietà indivisibile da noi italiani. Siamo italiani forse prima di ogni altra cosa. L’italianità è a noi indissolubilmente legata, e ciò che da essa deriva è quasi del tutto inscalfibile. Poco del nostro essere italiani è cambiato nella sostanza, nonostante gli inganni di una forma e di una qualità di vita gradualmente in evoluzione, grazie ad un progresso economico e tecnologico apparentemente inarrestabile. I comportamenti, gli usi, i costumi italiani sono difficilmente modificabili, si perpetuano di generazione in generazione. Gli individui che rifiutano la propria italianità solitamente fuggono, in senso fisico, dall’Italia. Tuttavia, nemmeno al momento della fuga dalla nostra terra cessiamo di essere italiani, e manteniamo un certo attaccamento alle antiche tradizioni, ed un determinato orgoglio nel rispettarle.
Dopodiché, l’italianità, dal punto di vista collettivo, è un carattere assolutamente pervasivo, dovunque presente nella nostra nazione. Pasolini sbagliava, quando sosteneva che la realtà dell’Italia provinciale, rustica e rurale sarebbe stata rapidamente distrutta dal potere della civiltà dei consumi: in seguito a quei “cinque, sette, dieci anni” di boom economico italiano, storicamente arrestati dagli shock petroliferi del 1973 e del 1979, la forza propulsiva della trasformazione provocata da quella che Hobsbawm definì l’“età dell’oro” del suo “Secolo breve” si è lentamente spenta, lasciando alla provincia italiana le briciole di una rivoluzione compiuta a metà. Nel frattempo le grandi città, i maggiori centri produttivi del centro-nord della penisola, capeggiati da Milano, hanno tentato di perpetuare la mutazione e di realizzare una progressiva de-nazionalizzazione, illudendosi di poter scampare alla propria identità, ma non hanno avuto successo. La realtà urbana italiana si figura oggi di essere diversa, migliore, superiore rispetto al resto del Paese, si pavoneggia di una presunta eccellenza, ma non è in verità altro che un pallido scimmiottamento della metropoli americana, una patina di modernità che nasconde meccanismi e rapporti sociali simil-feudali, analoghi a quelli della provincia, della campagna.
In principio, l’italianità ci viene infusa: ha origine da ciò che ci insegnano i nostri genitori, i nostri amici, i nostri concittadini. Nasce, dunque, a posteriori, in quanto categoria mentale entro cui facciamo rientrare gli atti tipici che ci vengono trasmessi da chi, nell’infanzia, ci educa. Tuttavia, è solamente nel momento in cui riconosciamo l’affinità della suddetta categoria, che noi abbiamo artificialmente creato, rispetto all’ambiente umano che ci circonda, e contemporaneamente la sua alterità nei confronti di tutta una serie di analoghe categorie mentali, che l’italianità nasce: in altre parole, diventiamo definitivamente italiani proprio quando ci rendiamo conto di essere irrimediabilmente differenti dai francesi, dai tedeschi, dagli inglesi, dai cinesi, dagli statunitensi. Solo in seguito a quell’istante, a quella realizzazione di appartenere ad una determinata nazionalità, l’appartenenza stessa inizia a plasmare, a priori, alcune tra le nostre azioni.
Essere italiani non è, di per sé, né un elemento positivo, né un elemento negativo: il legame alla nostra nazione acquisisce peso quando ne forziamo la rilevanza, ponendola come un nodo vitale, una necessaria spiegazione ad ogni nostro capriccio. Ciononostante, noi umani tendiamo spesso a dare un’eccessiva importanza all’influenza della nazionalità sul nostro pensare e sul nostro agire. Non dovremmo mai cessare di ricordare che siamo più qualificabili come membri di una comune specie che come abitanti di una singola nazione: nell’esercitare le nostre funzioni vitali, nello scandagliare le profondità delle nostre emozioni, quando siamo preda dell’istinto o invece quando riusciamo a rimanere razionali, siamo prima umani, poi italiani. L’italianità non è altro che un ridotto sottoinsieme dell’umanità, ma propendiamo in misura sempre maggiore verso la sua esaltazione o la sua demonizzazione, come se fosse una ragione fondamentale del nostro essere. Ne avvertiamo il bisogno, nel declino del nostro Belpaese, dell’Europa e dell’Occidente tutto, nella crisi d’identità individuale e sociale che imperversa su di noi: ci aggrappiamo all’italianità per sapere di cosa siamo fatti, in assenza di un sicuro riferimento.
Qualcuno si è stancato dell’italianità, e urla al mondo di averne avuto abbastanza dell’ossessione nazionalista: desidera epurare le nazionalità, superare i confini, creare una cittadinanza continentale, se non mondiale. La pura logica gli darebbe ragione, ma cancellare le appartenenze sarà una questione di secoli. Lo spirito è pronto, ma il cuore resiste: non riuscirei mai ad evitare di pensarmi come un italiano, di agire secondo i canoni dell’italianità, né mai potrò liberarmi dei suoi condizionamenti. Riconosco i limiti del mio sentimento, eppure mi sento italiano, e ne vado fiero.