L’UniversiMario | L’Immondizia
Al mattino, l’aria di Trento sembra poter cancellare il grigiore dai miei polmoni. Intossicato da uno sporco ventennio di sopravvivenza nella nebbia bergamasca, non posso fare a meno di gioire della serenità del cielo: la foschia compare di rado, e ogni risveglio è una piacevole sorpresa. Passeggio così per le vie della città, per puro diletto, e ricerco la serenità: mi rallegro, e respiro la quiete.
Abbracciando quel pensiero, qualche giorno fa presi a girovagare per le strade del centro storico. Avevo comprato tre brick di succo alla pesca, forse più per viziarmi che per dissetarmi: ne stavo giusto aprendo uno, quando mi imbattei nella piazzetta del coreutico. Infilandomi in Vicolo Santa Maddalena, per andare verso Piazza Venezia, mi domandai se mai mi fosse capitato di imboccarlo alla luce del sole. Osservavo l’insegna della Scaletta, e lentamente mi ci avvicinavo: mi fermai solo quando giunsi all’altezza della piccola scalinata che per metà incorniciava l’entrata del locale.
Rimuginavo, e nel frattempo una signora, presumibilmente residente nel quartiere, uscì dal portone antistante l’ingresso dell’osteria, visibilmente scocciata. Fissandola, scartai la cannuccia, la piegai e, con il suo lato appuntito, bucai il pacchetto e cominciai a sorseggiare il mio gustoso analcolico. La donna, piuttosto anziana, nemmeno si accorse della mia presenza. La catturarono invece alcuni manifesti plausibilmente abusivi, attaccati in massa al portone da cui era sbucata, che suscitarono in lei un attacco di sdegno: quasi grugnendo, li strappò tutti con veemenza, tra la collera e la stizza. Quando li ebbe branditi e accartocciati, con un ghigno disegnato sul volto si diresse verso il cestino che le pareva meno distante, liberandosene infine con sommo piacere.
Soddisfatta, si rituffò velocemente nel cortile di casa, non prima di aver gettato un lungo e torvo sguardo verso altre locandine, appiccicate poco lontano da me. Colto dalla curiosità e già un po’ immalinconito, mi ci accostai e le esaminai. Tra le grafiche si gridava, da studenti a studenti, al cambiamento del sapere, alla crescita della consapevolezza, alla rivoluzione dell’educazione: ma quelle rivendicazioni erano appena state gettate nella spazzatura. Per la signora, erano degne di finire nell’immondizia.
Prosciugato il succo, mi misi nuovamente a riflettere. Pensai che per alcuni residenti, apparentemente in maggioranza, noi studenti siamo degni di venir buttati nell’immondizia, tanto quanto i nostri manifesti, le nostre idee e le nostre vite. Pensai al marasma di commenti astiosi, sprezzanti, offensivi che regolarmente ci venivano vomitati addosso, a noi generazione fannullona, dissacrante, degradata. Pensai all’arroganza e all’egoismo di quei piccoli gruppi di cittadini abituati a vedersi servito su un piatto d’argento, ad ogni proprio capriccio, un contentino politico da quattro soldi, volto a conservare l’interesse e il voto dei miseri lattanti. Mentre schiacciavo rabbiosamente il brick, ormai vuoto, nel mio pugno, iniziò ad infuriarmi il sangue: da allora ancora mi ribolle nelle vene e non so darmi pace.
Non sono mai stato abituato alla movida, alle ore piccole e alle grandi feste. A Bergamo non si trova quasi mai da fare la sera, se non rinchiudersi in una discoteca a dilapidare il proprio patrimonio: sembra di vivere un perenne inverno sociale. Non ho mai considerato il divertimento pomeridiano e serale una priorità, e sempre trovo un momento per lavorare un minuto di più. Se così non fosse stato, probabilmente non mi sarei trasferito a Trento: sarei corso a tuffarmi nel mito di una Milano decadente, ma ancora da bere. Tuttavia Trento riesce spesso a dare filo da torcere alla freddezza della mia terra d’origine: al calar del sole, da allegra e signorile diventa lugubre, quando tutti si chiudono in casa propria. Specie d’inverno, passate le dieci e mezza, difficilmente si riesce a trovare in giro un’anima, né vi sono locali che possano accogliere grandi numeri di persone in cerca di un placido svago. La tranquillità viene soffocata dal buio e si trasforma in morte.
Eppure, c’è ancora chi invoca il proprio “diritto al riposo”, chi difende strenuamente l’ordine e la quiete pubblica, chi decide di ignorare completamente che Trento esista e viva anche in quanto città universitaria, aggrappandosi all’ignavia delle istituzioni. Per opportunismo e puro calcolo, le lagne di pochi privilegiati della residenza e del diritto di voto prevalgono dinanzi ai bisogni di decine di migliaia di giovani studenti, sovente esclusi dall’equazione della vita collettiva di Trento. Veniamo confinati nella bolla sociale dell’Università, nelle nostre stanze e nei nostri appartamenti, gli spazi privati che lautamente paghiamo, con i soldi dei nostri affitti, a quegli stessi cittadini che magari poi ci denigrano, ci respingono, ci detestano.
Già so che loro non ci ascolteranno, perché sono abituati ormai da decenni ad adagiarsi nel benessere e nella quiete, a vedersi accontentati nelle più minuscole esigenze, ad arroccarsi nella conservazione dei propri privilegi. Ragioneranno seguendo le logiche dell’interesse personale, e le autorità sapranno rispondere solamente cercando la loro approvazione, il loro consenso. Forse chiuderanno anche La Scaletta, ci impediranno di bere per strada, ci silenzieranno una volta per tutte e infine ci butteranno nell’immondizia, insieme ai nostri manifesti. Ma forse questa potrebbe anche rivelarsi, finalmente, l’occasione di sentirsi di nuovo uniti, ritornare a vivere e partecipare con forza, come studenti universitari, i vicoli, le vie, le piazze di una Trento che non ci ha mai ancora accettato per quello che noi veramente siamo.
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