La potenza del gusto
di Davide Hrobat
«La bellezza salverà il mondo»
F. Dostoevskij, L’idiota
Cadeva lo scorso anno il ventennale della morte del poeta polacco Zbigniew Herbert. Il pubblico italiano è scarsamente coinvolto dalla poesia contemporanea, spesso giudicata astrusa e incomprensibile. Questo è ancora più evidente nel caso di un autore straniero. La semplicità formale di Zbigniew Herbert giunge tuttavia in soccorso al lettore, veicolando una riflessione peculiare rispetto alla nostra poesia, quella di una correlazione fra etica ed estetica.1 Si tratta a ben guardare di un percorso letterario che, in barba alla distanza geografica e linguistica, ha molto in comune con il sostrato culturale del pubblico italiano: la storia europea e il retroterra culturale del mondo classico.
Herbert nasce nel 1924 a Leopoli,2 la più importante città della Galizia polacca. Da ragazzo frequenta il liceo scientifico ed è proprio qui che si innamora del latino. Durante la tarda adolescenza vive il trauma della guerra e conseguentemente l’alternarsi di nazismo e comunismo. Proprio per questo è costretto a terminare clandestinamente sia la maturità, sia la facoltà di letteratura.3 La sua prima raccolta poetica esce a metà degli anni Cinquanta in un ambiente tutt’altro che confortevole per un intellettuale apertamente in dissenso tanto con il regime comunista, quanto con quello nazista. Sceglie quindi la via dell’esilio, nella forma di una lunga peregrinazione per i più importanti paesi europei. In questo periodo coltiva la passione per il mito e per l’arte greca, argomenti che confluiscono in una serie di saggi e raccolte poetiche, assieme ad una copiosa serie di schizzi di opere d’arte dell’antichità. Questo gli comportò diverse critiche da parte dei compatrioti, sia da parte dell’uomo comune, sia dagli intellettuali di regime: i primi lo accusavano di una resistenza “facile” e “passiva”, i secondi invece lo consideravano un perditempo proprio per le sue passioni. Il regime in effetti considerava la storia dell’arte come un alternarsi di precursori del comunismo: tanto più si andava nel passato con obiettività, tanto minore era la possibilità di trovare riferimenti alla lotta di classe o all’agiografia dell’operato di Lenin o Stalin. Per il poeta invece l’esilio era una scelta utile a riflettere sulle modalità con le quali il comunismo piegava, secondo le sue necessità, le varie forme dell’esperienza estetica.4 Verso la metà degli anni Ottanta torna in patria e scrive una delle sue raccolte più importanti: Rapporto dalla città assediata. Nello stesso periodo appoggia il sindacato Solidarność, un organo di resistenza alle politiche lavorative del regime che contribuirà a mettere fine all’esperienza comunista in tutta Europa. Sul finire degli anni Ottanta si sposta in pianta stabile a Parigi. Tornerà in Polonia un’ultima volta sul finire degli anni Novanta. Si spegne nel 1998 quale ormai acclamato protagonista della resistenza.
La scrittura di Herbert è caratterizzata dal verso libero, con una forma quasi prosastica. Leggendo le sue poesie si nota subito un linguaggio piano e senza interpunzione, al quale fa da contrappunto un denso rimando di riferimenti classici. La scrittura assume in questo modo la forma del distacco nel quale è facile intravedere un certo stoicismo.5 Il lettore occasionale rimane colpito dalla chiarezza del linguaggio e da un senso di comprensione generale, la cui complessità si schiude invece al lettore più attento.6 Questi fattori rendono la sua forma moderna non solo per il verso libero, ma anche per il motivo che lo spinge ad utilizzarlo.7 L’esperienza del particolare periodo storico e politico, che ha visto nella Polonia un teatro di devastazione e morte, si traduce nella necessità di rendere ragione del dolore e della condizione di assedio del proprio paese. L’apertura formale della sua poesia è quindi un tentativo di dare strumenti di comprensione delle ragioni della sofferenza umana al più ampio pubblico possibile. È il caso di Apollo e Marsia,8 una poesia nella quale il mito è occasione di discussione della forma e delle possibilità dell’arte. Apollo, dio della poesia, è uscito vincitore con l’inganno in un confronto con Marsia, satiro e mitico musicista. L’autore ci offre uno specchio di ciò che è in ballo nell’agone: l’«orecchio assoluto» di Apollo contro le «possibilità infinite» di Marsia. Benché inizialmente la poesia non espliciti l’importanza di questi termini, vedremo che saranno fondamentali chiavi di lettura nel proseguimento del testo. Come nel mito, anche in questa versione l’olimpico decide di punire il satiro: gli dei greci punivano coloro che ritenevano di essere migliori di una divinità. Il corpo di Marsia viene dunque straziato e il satiro urla ciò che alle orecchie dell’olimpico è un monotono, in senso musicale, suono “A”. L’autore sottolinea però che in questo suono sono declinati:
i monti calvi del fegato
le bianche forre dei cibi
le selve fruscianti dei polmoni
le dolci alture dei muscoli
le giunture la bile il sangue i fremiti
il vento invernale delle ossa
sul sale della memoria.
Rispetto a questo suono l’olimpico è percorso da «un brivido di disgusto». Da questi dati possiamo ricavare alcune considerazioni. Il disgusto di Apollo è riferito alla monotonia del suono. Si tratta a ben vedere di un dio che possiede una concezione molto disincarnata dell’arte che rappresenta. In un certo senso il suo atteggiamento è tutt’uno con il suo orecchio, non a caso definito «assoluto» che in questo caso possiamo interpretare in senso etimologico. L’orecchio di Apollo è infatti incapace di ascoltare «le possibilità infinite» che Marsia porta con i suoi organi: una musicalità interna, con un proprio ordine, che intreccia esperienza estetica del corpo e memoria. L’olimpico è quindi disgustato da ciò che sembra essere la più autentica esperienza umana. Si tratta di un udito senza vincoli di ascolto, che segue traiettorie divine e che di conseguenza nemmeno riconosce quelle umane. Il poeta aggiunge un’ulteriore sezione nella quale il dio appare pensieroso:
il vincitore si allontana
chiedendosi se
dall’ululo di Marsia
non sorgerà
col tempo
un nuovo ramo
di arte – diciamo – concreta.
Nell’economia del testo in questa parte il piano dell’ululo di Marsia si apre, anche semanticamente, a quello dell’arte. Non è difficile trarre da questo l’idea che il poeta ha della sua stessa poesia: nuova, concreta; scritta con una forma in grado di accogliere ciò che di più profondo c’è nell’umano e di dare voce ad un dolore che appare altrimenti inascoltato. L’assenza di interpunzione potrebbe essere in effetti un modo per richiedere a se stesso e al lettore l’attenzione negata dall’arte altra, quella di Apollo. Si tratta di una partecipazione profonda: il tentativo di attribuire un ordine ad un qualcosa che sembra non averne. Mentre Apollo si allontana:
cade ai suoi piedi
un usignolo pietrificato
volta la testa e vede
che l’albero al quale era legato Marsia
è canuto
completamente.
Questa sezione finale sembra sottolineare la reazione della natura rispetto all’atteggiamento di Apollo. La distruzione dell’armonia degli organi, la mancanza di attenzione all’esperienza umana, l’idea di un’arte senza vincoli con l’uomo, si sono tradotte in un’afasica fonte di dolore e morte. Non è difficile immaginare un riferimento all’arte proletaria con le sue logiche interpretative funzionali al partito e il silenzio che sembrano fare attorno a sé. Dalla poesia emerge però un’arte che risuona ancora; quella musicata dall’esperienza umana, le cui «possibilità» sono «infinite» e addirittura “concrete”. La complessità interna del suono di Marsia si traduce in una ricerca attiva: un’arte nella quale possa ancora trovare posto l’uomo, anche quello eliso nei campi di concentramento nazisti o nei gulag sovietici. Si tratta chiaramente di un’operazione poetica nella quale piano etico ed estetico esprimono una consonanza: quella fra musica ed organi, fra forma e contenuto, i cui piani si esprimono vicendevolmente. Questo programma è coadiuvato da un’interpretazione molto peculiare del mito, la cui forza comunicativa non è affatto perduta: il passato trova un riflesso nel presente del poeta, presente al quale il passato sembra chiedere ragione dello stato in cui verte.
In questo senso si possono interpretare le parole che troviamo nella sua produzione saggistica: «V’è l’errata concezione che la tradizione sia qualcosa di simile a una massa ereditaria, e che la si erediti meccanicamente, senza sforzo». Aggiunge poi: «In realtà ogni contatto con il passato comporta invece sforzo e lavoro, ed è difficile e ingrato, perché il nostro piccolo “io” gracchia e si difende. Ho sempre desiderato non mi abbandonasse la fede che i capolavori dello spirito sono più obiettivi di noi. E loro ci giudicheranno».9
La rielaborazione del tema mitico raggiunge il culmine ne La storia del Minotauro.10 Si tratta di un racconto in prosa nel quale Herbert opera, ancora una volta, una fitta rete di rimandi al suo presente. «Il Minotauro era nato sano», ma «con una testa di grandezza anormale». La presenza di un’asimmetria o di una sproporzione fisica è una caratteristica degli eroi del mito. Per questo forse Herbert prosegue il racconto dicendoci che gli indovini avevano riempito il padre del Minotauro, il re Minosse, di grandi aspettative. Crescendo, però, il Minotauro divenne «un ebete robusto e un po’ malinconico». Minosse provò quindi ad avviare il figlio alla strada sacerdotale, ma questi venne rifiutato poiché «avrebbe potuto sminuire l’autorità della religione, già comunque scossa dall’invenzione della ruota». Il re tuttavia non si arrese e, per inculcare al figlio un po’ di ragione, si affidò a Dedalo, che in questa versione diventa «l’inventore della corrente dell’architettura-pedagogica». Il precettore-costruttore edificò quindi il «labirinto», che avrebbe dovuto «con un sistema di corridoi» insegnare al Minotauro «le norme del corretto ragionamento». Herbert si premura di farci capire la struttura dell’edificio e anche il motivo per cui pare un labirinto: una rete di anditi, «dai più semplici ai vieppiù complessi, con differenza di livelli e scale di astrazione». Aggiunge inoltre che i corridoi sono quelli «dell’induzione e della deduzione» ricchi di «affreschi dimostrativi». Quella di Dedalo è una figura importante nell’economia del racconto. I pedagoghi nella Grecia antica erano solitamente filosofi; l’autore cerca di suggerirci questa analogia utilizzando il trittico terminologico “deduzione”, “induzione”, dimostrazione”: elementi costitutivi del metodo filosofico. Il poeta, come confermato dalla struttura del labirinto, non scinde architettura e filosofia, unendo tramite questo personaggio, forma e contenuto. Questo però non è sufficiente per Herbert, perché ancora più importante dell’intercambiabilità della coppia filosofia-arte è l’utilizzo che ne viene fatto: bisogna che l’arte sia, come abbiamo visto in Apollo e Marsia, “consona” all’umanità. È la parte più profonda dell’uomo quella che deve essere accolta, mentre in questo caso «il principe si aggira infelice» e «senza capirci un’acca». La forma dell’edificio non sembra essere abitabile dall’ibrido, che esprime una condizione molto umana, quella della tristezza. Il racconto sembra farci capire che Dedalo è indifferente a questa condizione, concentrato com’è sulla brama di ottenere risultati consoni alle sue aspettative e alle sue modalità disciplinari. La figura di Dedalo a ben guardare, somiglia a quella di Apollo: assoluta, fine a se stessa, non in grado di comprendere i moti interiori dell’umanità. Alla “disumanizzazione” di Dedalo, che assume sempre più le sembianze del suo labirinto, corrisponde una progressiva umanizzazione del Minotauro. Una lettura allegorica11 ci permette di osservare l’intero sistema di istruzione del regime comunista: un pensiero unico, basato sulla filosofia di stampo marxista e volto alla sua stessa riproduzione al prezzo dell’infelicità umana. Queste modalità “architettoniche” del pensiero producono tanto un’arte quanto delle istituzioni con le medesime caratteristiche. L’individuo “anormale”, non allineato, è visto potenzialmente come un mostro. Nel racconto il Minotauro non esprime mai una propria scelta ed è sempre succube di ciò che le autorità vogliono per lui: le sue “infinite possibilità” non vengono nemmeno misurate. L’arte-filosofia rimane muta di fronte all’infelicità del Minotauro al quale, a sua volta, non rimane che una tacita accettazione di ciò che forze superiori hanno in mente per lui.
Nella sezione finale del testo abbiamo la conferma di quanto accennato. Herbert infatti ci dice che il re, frustrato, decise di liberarsi definitivamente del figlio. Assoldò quindi «un abile assassino, Teseo». Colui che nel mito originale verrà ricordato come eroe, torna, nelle vesti della narrazione, «portando la grande testa sanguinante del Minotauro». Aggiunge ancora il poeta, «In quegli occhi sbarrati cominciò a germogliare per la prima volta la saggezza – quella che di solito è data dall’esperienza». Capiamo che il Minotauro è riuscito effettivamente ad imparare qualcosa nel labirinto, ma solamente passandoci da morto. La morte dell’anormale assume però i funesti contorni del successo del metodo correttivo di Dedalo, a simboleggiare la terribile efficacia di uno stato le cui ragioni dialettiche costituiscono un edificio-labirinto all’interno del quale le ragioni individuali sono negate oppure eliminate.12 Ancora una volta è il mito a darci l’idea che il presente abbia smarrito la bussola dell’armonia, dell’attenzione e del gusto, rendendo il cuore degli uomini tanto inumano, quanto infelice.
Il tema del gusto è uno dei cardini della poetica di Herbert, e viene esemplificato nei suoi aspetti più concreti ne La potenza del gusto,13 pubblicata nel 1983 a Varsavia. In apertura il poeta si interroga sulle ragioni che lo hanno spinto a resistere al sistema-labirinto del regime. Esordisce scrivendo:
Non c’è voluto certo un grande carattere
per il nostro rifiuto dissenso e opposizione
abbiamo avuto un pizzico del necessario coraggio
ma in fin dei conti è stata una questione di gusto
Sì di gusto
con fibre d’anima e cartilagini di coscienza
Capiamo che per Herbert la resistenza non è stata una questione di eroismo, ma più esplicitamente di gusto. Un gusto che assume i contorni dell’unione dell’ordine interno ed esterno come già per Marsia e i suoi organi, e che richiama la profonda esperienza di ciò che è naturale, armonico ed umano. Il dissenso quindi assume, già in apertura, la dimensione estetica, che in questo caso diventa resistenza attiva, come anticipato dal termine “opposizione”. Il regime, anziché aver mandato «rosee donne piatte come un’ostia» ha provato a tentare il poeta con:
una retorica fin troppo grezza
[…]
catene di tautologie un paio di concetti come martelli
una dialettica di carnefici senza alcuna finezza nell’argomentare
una sintassi priva della grazia del congiuntivo.
Qui Herbert compie due operazioni: da una parte, servendosi dell’ironia,14 fa notare come il regime sia incapace di trovare modalità adeguate per tentare l’uomo: disconoscendone l’umanità, non sa nemmeno riconoscere la sua propensione alle debolezze carnali. Dall’altra questa negazione dell’umanità si esprime nel linguaggio, con una bruttezza, una la mancanza di gusto che va a costituire «l’inferno». Questo è rappresentato da un «palazzo di giustizia» nel quale risiede un «Mefistofele casereccio in giacca alla Lenin», ovvero un funzionario. Prosegue il poeta: «prima di aderire bisogna esaminare attentamente/ l’architettura». Il tema dell’opposizione è inserito ancora una volta all’attenzione della forma: «[…]l’estetica può essere di aiuto nella vita/ non bisogna trascurare la scienza del bello». Per questo «i nostri occhi si sono rifiutati di obbedire/ i prìncipi dei nostri sensi hanno scelto un altero esilio». Una forma brutta è una forma non attenta all’uomo, che produce afasia o al peggio morte. L’uomo che sa riconoscere questa bruttezza può però salvarsi evitando una facile adesione. Il gusto diventa una facoltà grazie alla quale l’uomo è in grado di allenarsi a riconoscere ciò che è umano e ciò che non lo è. Si tratta senza dubbio di una via rigorosa e difficile. Il poeta conclude quindi riprendendo e variando il verso di apertura:
Non c’è voluto certo un grande coraggio
è stata una questione di gusto
sì di gusto
che ci impone di uscire storcere il viso sibilare lo scherno
dovesse pur cadere l’inestimabile capitello del corpo
la testa.
Da questi versi, uniti a quelli citati in precedenza, sembra emergere prima di tutto una risposta alle critiche mosse rispetto al suo esilio: si tratta di una scelta altera e non facile, che ha permesso di guardare in profondità alle modalità con le quali l’arte e il pensiero hanno parlato agli uomini. A ben guardare si è forse trattato di esercitare quanto più possibile il proprio gusto. Questo continuo allenamento, questo esercizio di distacco, non si traduce in un percorso disincarnato, bensì in un’attività pratica, pragmatica. Il gusto infatti impone, con carattere cogente, un’opposizione alla bruttura. Di fondamentale importanza risultano in questo senso gli ultimi due versi, perché legano il discorso sul classicismo che abbiamo visto in precedenza all’intero ragionamento della poesia. Notiamo infatti che la testa è indicata come capitello del corpo. Questo sembra a sua volta indicarci che solamente esercitando il nostro gusto saremo uomini fino in fondo, capaci, a qualsiasi costo, di interrogare il presente di tutti i tempi.
Nonostante il mancato accenno ad elementi costitutivi della poetica herbertiana, anche una lettura preliminare dell’opera restituisce una poetica originale, complessa e affascinante. Il particolare connubio etico-estetico viene declinato in diverse modalità, nelle quali le sue componenti diventano modelli necessari l’uno all’altro. Questo impone un’attenzione costante sia all’autore, nel suo continuo interrogare le macerie di un’umanità distrutta dalla guerra e dal regime, sia al lettore che è chiamato a riempire di senso l’operazione del poeta. Il lettore si troverà più attento nell’osservare il terreno estetico che lo circonda, spesso in bilico fra l’umano e il disumano. Chi ha sempre cercato un risvolto pratico nella letteratura, troverà nell’opera di Herbert una potente unione di lucidità, forma e concretezza, il cui scopo ultimo è forse quello di portare all’interrogativo fondamentale che ogni lettore (e uomo di lettere) dovrebbe porsi: «perché il pensiero, perché la letteratura?».
1 Cfr. J. Brodskij, prefazione a Zbigniew Herbert, Rapporto dalla città assediata, Adelphi, Milano 1993, p. 20.
2 Tutte le note biografiche sono tratte da P. Marchesani , Postfazione a Z. Herbert, Rapporto dalla città assediata,Adelphi, Milano 1993, pp. 252-258.
3 Queste e altre informazioni sulla sua opera sono disponibili sul sito: https://culture.pl/en/artist/zbigniew-herbert.
4 Cfr. Marchesani Op. cit., p. 266.
5 Ivi, p. 254.
6 Cfr. Brodskij, Op. cit., p. 12.
7 Ivi, p. 18.
8 Z. Herbert, Rapporto dalla città assediata, pp. 75-76.
9 Z. Herbert, Animula (frammento), traduzione di F. Fornari in F. Fornari, Zbigniew Herbert, Dipartimento per la Promozione, Ministero Affari Esteri della Repubblica Polacca, 2008, p. 37.
10 Z. Herbert, Op. cit., p. 141.
11 S. de Fanti, dal 1956 al nuovo secolo, in L. Marinelli Storia della letteratura polacca, Einaudi, Vicenza, 2004, p. 460.
12 F. Fornari, Zbigniew Herbert e il comunismo, PLIT, vol. 2, p. 26 (disponibile sul sito: https://plitonline.it/2008).
13 Z. Herbert, Op. Cit.
14 Cfr. Marchesani, Op. cit., p. 263.