L’UniversiMario | L’Oblio
La ricordo come una giornata tiepida, placida, soleggiata. Lo ricordo come un classico venerdì trentino, di quelli che ti sfiancano senza aver bisogno di intromettersi nei tuoi affari personali. Avevo appena finito di ripulire il Lungadige, insieme a una trentina di giovani studentesse, studenti, lavoratrici e lavoratori. Mi allontanavo dal fiume, sporco, polveroso. Sorridevo, e camminavo verso Piazza Dante, là dove ci saremmo tutti incontrati. Le premesse non erano di certo serene, ma non sembrava che la situazione potesse degenerare. Non mi attendevo una massiccia partecipazione, né tantomeno un’accesa contestazione. Tutt’al più, avrei gradito il successo del nostro atto di protesta: di fronte a un soliloquio mascherato da contraddittorio, saremmo stati noi la voce contraria. Avremmo occupato una buona fetta dei posti disponibili, e al segnale concordato ci saremmo alzati, andandocene e svuotando la sala.
Giunto al punto di ritrovo, davanti al Palazzo della Provincia, non guardai in faccia nessuno, e mi piazzai le cuffie sulle orecchie, a pieno volume. Seguivo di tanto in tanto l’evoluzione delle circostanze, alzando gli occhi dal telefono e spostando a lato gli auricolari quando volevo ricevere un aggiornamento. Gli umori rimanevano piatti, malgrado già l’attendismo degli organizzatori infastidisse piuttosto visibilmente i presenti. Per almeno quarantacinque minuti non ci fu permesso accedere, poiché i coordinatori e i relatori dell’evento non erano ancora arrivati in Piazza Dante, a detta di colui che presumevo essere il responsabile del servizio di sicurezza, un uomo magro, calvo, glabro, che spesso si affacciava dall’ingresso principale. Lampante era la strategia di temporeggiare il più possibile, e altrettanto manifesta era la preoccupazione nei confronti della crescente folla che, con mia sorpresa, andava radunandosi di fronte al Palazzo. Gettava sguardi torvi, con i suoi occhi cerulei, verso un gruppo che batteva le bandiere e gli striscioni della CGIL, volantinava massicciamente, e si era apertamente e dichiaratamente schierato in contrasto al convegno, piazzandosi sul ciglio opposto della strada.
Passata un’altra decina di minuti, era chiaro che noi fossimo diventati troppi, per i loro gusti. Fuori la pazienza scarseggiava, mentre dall’entrata sbucavano, prima saltuariamente, poi sempre più frequentemente, i volti dei diversi incaricati all’accettazione e alla sorveglianza, nervosi e contrariati dalla nostra presenza. Il malcontento serpeggiava. Improvvisamente, ma non per errore, le porte del Palazzo si aprirono. Giusto il tempo di lasciar passare una quarantina di persone e, con prontissimo tempismo, fummo nuovamente bloccati. Le scuse del servizio d’ordine, campate con l’aria di chi non conosce l’arte del mentire, vertevano intorno all’impossibilità di accedere ad una sala ormai piena, occupata dai fortunati vincitori della lotteria dei primi arrivati e da ben trenta giornalisti, dieci per ognuna delle testate della Provincia Autonoma. Ma nessuno si stava bevendo la frottola, e anzi la tensione si gonfiava lentamente, come se si stesse per combattere una lunga guerra di logoramento, o assediare un antico castello medioevale. Da ogni via arrivavano persone, e s’accalcavano all’ingresso. Persino quelli che dapprima erano solamente dei curiosi si stavano scocciando, e chiedevano a gran voce il rispetto della libertà di assistere ad un congresso pubblico.
La seccatura si trasformò in rabbia quando, su richiesta degli organizzatori, a presidiare il Palazzo subentrarono dei poliziotti, dall’alto della loro divisa, e si smise di cercare di nascondere o giustificare il già palese tentativo di impedire con la forza la partecipazione ad una conferenza pubblica. Proprio mentre raggiungevamo la massa critica, e il dissenso si trasformava da pacifico a non-violento, partirono le prime urla, i primi scherni, i primi cori. I più tenacemente risoluti a farsi valere imboccarono un ingresso laterale, che dava su un parcheggio riservato ai dipendenti della Provincia. Riversatici nel corridoio principale del Palazzo, cominciammo a cantare contro gli assessori Bisesti e Segnana. Frattanto, chiamarono i rinforzi, e una quindicina di volanti tra Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza si posizionarono a protezione delle uscite e della sala in cui si stava tenendo l’incontro. Accompagnati dalle sirene, si schierarono ulteriori membri delle forze dell’ordine, in tenuta antisommossa, come se noialtri, cittadini che volevano esprimersi contrariamente ai dettami del governo provinciale sulle pari opportunità e l’educazione di genere, costituissimo un mortale pericolo per la sicurezza e il benestare della Provincia stessa. Spuntò un megafono, e una professoressa si lanciò in un lungo e complesso intervento, attraverso cui chiese un confronto pubblico.
Gli assessori non tollerarono la richiesta di confronto. Dal cordone della sicurezza uscì un piccolo uomo dalla voce stridula, che ci ordinò di disperderci immediatamente. Ci concesse tre secondi di pazienza, o poco più, e dopo gli sbirri caricarono, a freddo. Sbirri, perché “sbirri” nell’accezione più autentica del termine, ascrivibili a “bracci armati del signorotto di turno, che li impiega per imporre il suo potere al popolo inerme”. Picchiatori di persone che non avevano alcuna colpa, se non quella di non essere allineati con la Lega (Nord). Non rimasi coinvolto solamente perché avevo deciso di documentare e filmare gli avvenimenti, e mi ero dunque sistemato in cima alla scalinata che sovrastava l’atrio centrale del Palazzo.
Sembrava una presa per il culo, quando a noi che non avevamo assaggiato l’asprezza della repressione e non eravamo stati trascinati fuori di peso, fu consentito di uscire liberamente, con tanto di sorrisetti e arrivederci. Fuori, non sapevamo cosa fare, sconvolti, increduli, furiosi. Loro stavano in religioso silenzio, senza vergogna. E come ciliegina sulla torta, mentre cercavamo di elaborare la vostra codardia, giungeva infine l’umiliazione. La patetica sfilata, davanti ai nostri occhi, dell’assessore Bisesti scortato dagli stessi agenti che ci avevano appena aggrediti.
Lo ricordo, venerdì scorso. Lo ricordo così, e mi fa ancora schizzare il sangue dalle arterie dritto negli occhi. Vi ricordo, voi della Lega, e vi conosco, da quando mangiavate terra e polenta pur di raccogliere qualche scarso consenso nei giardini di casa vostra. Potenti per mero caso o per pura opportunità. Inetti che si bullano di esser tiranni.
Prima che ispirarvi al fascismo nel merito, lo imitate nel metodo. Abusate delle istituzioni, dei loro mezzi e delle loro strutture, e le asservite ai vostri fini, al vostro partito. Sputate sulla dignità umana come sputavate sui terroni. Corrodete la democrazia, vorreste trasformarla in merda. Fomentate la violenza, l’odio, il terrore per trarne guadagni politici ed economici. Create demoni nelle menti dei cittadini. Li violentate per soffocarne le coscienze civili e morali. Noi non alzeremo mai una mano su di voi, come voi invece avete ordinato di fare. Perché voi, di noi, avete paura. E noi invece, di voi, abbiamo pietà. Pietà di voi che vi illudete di stare al di sopra di ogni legge, di voi che vorreste imporre i vostri dogmi pure al Dio in cui millantate di credere.
Non possiamo dimenticare ciò che è accaduto. Non possiamo lasciar cadere la memoria di venerdì nell’oblio. Non possiamo sopportare nel silenzio anche questa offesa. Noi non ci lasceremo calpestare. Ve lo prometto.