Il Nome della Rosa: la fiction come strumento di divulgazione culturale?
di Francesca Altomare
Lunedì 25 marzo 2019 è stata mandata in onda su Rai 1 l’ultima puntata di “Il Nome della Rosa”, l’attesissima serie TV che ha portato in prima visione l’omonimo romanzo di Umberto Eco. La serie si è svolta in quattro puntate, ciascuna delle quali divisa in due episodi.
Nel corso della serie TV i due protagonisti Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk ci hanno accompagnato alla scoperta dei misteri di un suggestivo monastero benedettino del 1327, tra dispute teologiche, libri proibiti, monaci assassinati e… qualche imprecisione storico-artistica. I misteri della serie sembrano essere ben altri, ad esempio: come fa una statua di Vergine dolente, la cui posa appartiene ad una tradizione figurativa ben lontana dai canoni estetici medievali, ad essere l’oggetto di culto di un monaco benedettino del 1327? Oppure, com’è potuto succedere che il ciclo di affreschi dedicato alle Storie della Maddalena, realizzato da Giovanni da Milano nel 1365 nella Cappella Rinucci della chiesa di Santa Croce a Firenze, appaia sulle pareti della sala capitolare del monastero durante la disputa teologica tra francescani e legati pontifici o che il piccolo dipinto su tavola Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo da Camogli, realizzato negli anni Quaranta del Trecento, si sia trasformato in una gigantesca pala a parete? O ancora: attraverso quale esperimento di alchimia un bellissimo angelo realizzato negli anni Cinquanta del XX secolo sulla vetrata di una chiesa statunitense sia sulle pagine di un libro di disegni preparatori trecenteschi?
A fare un po’ di chiarezza sono stati gli studenti del secondo anno del corso di studi in Beni Culturali dell’Università degli Studi di Trento. Gli studenti, con la consulenza dei professori Alessandra Galizzi e Aldo Galli e con la collaborazione di Alessandra Saletti, hanno realizzato il blog “Pillole di storia dell’arte” nel quale hanno individuato e motivato alcune delle maggiori incongruenze storico-artistiche della serie.
Ma non fraintendiamoci, il blog non ha come intento quello di portare avanti una polemica sterile nei confronti di una serie TV che, nonostante tutto, ha avuto la forza di iniziativa di mandare in onda uno dei più avvincenti romanzi della letteratura contemporanea, assumendosi tutti i rischi dell’impresa. Esso piuttosto si pone come obiettivo quello di stimolare il senso critico degli osservatori. La serie “Il nome della Rosa” non è di certo il primo esempio (e temo che non sarà l’ultimo) di come le opere d’arte siano troppo spesso utilizzate come arredo esteticamente piacevole di un’ambientazione ovvero come qualcosa che serve semplicemente a riempire o ad abbellire uno spazio che altrimenti apparirebbe anonimo. Questa tendenza a separare la componente estetica di un’opera dal suo contesto storico rischia, tuttavia, non solo di generare ibridi imbarazzanti ma soprattutto di ribaltare lo scopo della storia dell’arte rendendola un mezzo di diseducazione.
È ormai assodato che la dimensione mediatica sia il più potente strumento di universalizzazione della cultura ma è proprio in virtù dell’ampiezza del suo bacino di utenza che il messaggio che trasmette deve essere valido. Puntare esclusivamente sulla componente estetico-emozionale, rinunciando così alla validità storica o mettendola in secondo piano, fa della creatività un mezzo per stimolare il consumo commerciale e non per divulgare la cultura. Se si cominciasse a sfruttare la capillarità di trasmissione dei mass-media per condividere prodotti di qualità, invece che per rincorrere il picco di share, probabilmente si potrebbe cominciare a parlare di cultura di massa in un’accezione più che positiva. L’idea di spettacolarizzare il romanzo di Eco avrebbe potuto offrire al grande pubblico la possibilità di avere un metodo di conoscenza alternativo, ma la logica dei grandi numeri ha vinto ancora. Certo, la costante (e un po’ superficiale) generalizzazione degli aspetti stilistici delle opere d’arte da un lato funziona, perché contribuisce a generare entertainment, ma dall’altro provoca una progressiva s-definizione del valore della storia dell’arte. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se alcuni aspiranti critici e storici dell’arte hanno deciso di assumersi il compito di difendere l’importanza culturale della storia dell’arte dalle continue minacce di questi processi di decontestualizzazione, con lo scopo di riaffermare le ragioni di una disciplina che vuole radicarsi nella contemporaneità utilizzando al meglio tutti gli strumenti che l’Era del digitale offre.
Approfondimenti
L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico, Gilles Lipovetsky e Jean Serroy
Il blog “Pillole di storia dell’arte” è stato realizzato da Chiara Capovilla, Camilla Luzi, Davide Natili, Elisa Antoniolli, Eva Bassetto, Federica Pinca, Francesca Brunelli, Giada dal Maistro, Margherita Azzolini, Maria de Carli, Veronica Cagnati e Ylenia Corona.