Quando il numero non fa la forza: l’intricato paradosso del genere umano.
di Michele Bargagli
Quotidianamente siamo bombardati da informazioni ed allarmismi di qualsiasi genere, talvolta giustificati, talvolta decisamente meno. L’impressione, però, è quella che nel disordinato macrocosmo del dibattito pubblico sia assente una reale cognizione della dovuta rilevanza da assegnare ad una specifica problematica che ci viene proposta. O comunque, che ci manchi la capacità di affrontarla in un’ottica di più ampio respiro, individuando cause e conseguenze solo apparentemente scollegate.
È proprio questo il caso quando trattiamo il fenomeno dell’aumento della popolazione mondiale. Un processo di cui tutti siamo a grandi linee consapevoli, ma sul quale vi è una attenzione mediatica scarsa, o comunque sproporzionata rispetto agli stravolgimenti che un eccessivo aumento delle nascite potrebbe apportare alla nostra società e al nostro pianeta.
La questione della popolazione sembra essere scivolata silenziosamente fuori dall’agenda internazionale, quasi che la mancata esplosione della «bomba demografica» (come fu definita mezzo secolo fa la veloce crescita della popolazione mondiale), ci autorizzi a non preoccuparci delle tre o quattro miliardi di persone in più che dovremo accogliere sul pianeta, nutrire, vestire, alloggiare, istruire e avviare al lavoro prima della fine del secolo.
Quello dell’aumento demografico è un fenomeno che ha avuto una improvvisa impennata a partire dal XIX secolo. Se consideriamo, infatti, la crescita avvenuta a partire dall’anno zero fino al 1800, vediamo che l’aumento è delle dimensioni di 8 individui all’anno ogni 10.000. Era presente una crescita, ma ancora fortemente legata alle restrizioni biologiche imposte dal modello basato sulla sopravvivenza. Anche dove si era riusciti a superare le insidie materiali della povertà e della fame (gruppi privilegiati delle aristocrazie e dei proprietari terrieri), la mortalità rimaneva altrettanto alta rispetto a quella dei ceti poveri. La forza distruttiva delle patologie, in particolar modo di quelle infettive e trasmissibili, restava preponderante. Anche l’istinto riproduttivo era ancora fortemente legato e circoscritto ad ambiti abbastanza limitati: erano quasi totalmente assenti regolazioni volontarie ed inoltre era fortemente condizionato da fattori biologici come l’età, lo stato di salute, la frequenza dei rapporti sessuali e la durata dell’allattamento. La riproduttività era tenuta alta non solo per compensare l’elevata mortalità, ma anche perché gli esseri umani erano culturalmente incapaci di separare l’atto sessuale dalla conseguente generazione d’individui. Così, nel lungo periodo, se si prescinde da fluttuazioni provenienti da fattori esterni, il numero delle morti e delle nascite è stato pressappoco in equilibrio.
In seguito, a partire dai primi decenni del 1800, i progressi in ambito scientifico e medico hanno iniziato a squilibrare i tradizionali meccanismi di sopravvivenza propri del genere umano fino a quel momento. Tra XIX e XX secolo si infrange gradualmente la sindrome di povertà, di risorse materiali e di conoscenza che aveva sempre impedito alla demografia di fare un salto in avanti considerevole, mantenendo mortalità e natalità ad alti livelli.
Assistiamo così ad uno sviluppo mai visto nel corso della storia umana. La rivoluzione agricola prima e, in particolare, la rivoluzione industriale poi, fanno sì che si venga a creare un benessere senza precedenti. Vi è più energia, più risorse materiali primarie, più beni manufatti e, conseguentemente, più cibo. Le innovazioni scientifiche in campo medico e biologico debellano progressivamente le cause delle malattie infettive più comuni e devastanti. La sopravvivenza cresce, la durata della vita anche. Come effetto, avviene un fondamentale cambiamento nella storia umana: per la prima volta si scindono riproduttività e sessualità. Essendosi accresciuta la sopravvivenza dei bambini, le coppie di genitori erano indotte a concepire meno figli, mettendo in pratica per la prima volta una limitazione volontaria nella produzione della prole. Si compie dunque una straordinaria rivoluzione: il genere umano intraprende un processo di progressiva emancipazione dalla biologia che governava ed equilibrava la sopravvivenza umana.
La crescita avvenuta negli ultimi due secoli è impressionante. La popolazione è raddoppiata da 1 a 2 miliardi di persone tra il 1800 e il 1927; un secondo raddoppiamento si è completato nel 1974, quando l’umanità ha raggiunto i 4 miliardi di individui. Nel 2023 dovremmo arrivare ad un pianeta popolato da 8 miliardi di persone.
Tali cifre sembrano destinate ad aumentare vertiginosamente ancora per il prossimo secolo.
Nonostante i ritmi della riproduttività siano in una fase discendente, a livello «mondiale» le Nazioni Unite avvertono che nel 2050 la popolazione crescerà fino a toccare i 9,7 miliardi di persone, per poi sfondare la quota di 11 miliardi nel 2100 (3,9 miliardi in più di oggi). Risulta ovviamente difficile valutare l’assoluta attendibilità di quest’ultimo dato, ma vi sono grandissime possibilità che si raggiunga una cifra molto vicina. Limitandoci a considerare i dati facenti riferimento al 2050, possiamo affermare con una certa sicurezza che la popolazione mondiale aumenterà di 2 miliardi e mezzo di persone nei prossimi trent’anni. Ben più di 2 miliardi di persone si aggiungeranno al già saturo e precario sistema che regola la nostra società. Bisognerà nutrire queste persone, avranno bisogno di spazi in cui vivere. Necessiteranno di combustibili ed energia per cucinare, lavarsi e muoversi.
Risulta, però, fondamentale articolare territorialmente il fenomeno. Esistono discrepanze enormi sui ritmi di crescita dei vari gruppi umani. Ci troviamo di fronte, infatti, a popolazioni con ritmi di crescita stazionari o addirittura in declino, accoppiati ad altri nuclei che procedono alla massima velocità possibile (oltre il 3% l’anno).
Quasi integralmente, l’aumento futuro avverrà nei paesi in via di sviluppo o nelle aree estremamente povere. In particolare, nel subcontinente indiano e nell’Africa subsahariana, la popolazione raddoppierà. In Europa, in Cina e in Giappone la popolazione imboccherà un fase discendente molto prima della metà del secolo.
La situazione senza dubbio più scottante rimane quella africana. Nella regione a sud del Sahara la popolazione si moltiplicherà, in 35 anni, per 2,2 volte (da 962 a 2.123 milioni), dove tutt’oggi la natalità si aggira attorno ai 5,1 figli per donna.
È doveroso sottolineare, seppur sia una tendenza già in atto, che nel futuro prossimo, la popolazione delle aree urbane crescerà rapidamente a scapito di quella rurale, la quale sta andando incontro ad un veloce declino. È un mondo al massimo del caos demografico, che marcia verso un futuro ancora non ben definito.
Ma quali sono gli interrogativi che stanno dietro a un così massiccio aumento demografico, e come dobbiamo valutarlo?
Vi sono due filosofie opposte che possono venirci in soccorso per rispondere a tale domanda.
La prima tende a considerarlo come un fenomeno indubbiamente importante, ma tutto sommato poco influente nello sviluppo mondiale, visto la presenza di forze sociali, politiche ed economiche altrettanto forti. La seconda visione, viceversa, mette in evidenza il pericolo di come ciò si possa trasformare in un potente propellente nel acutizzarsi del conflitto tra popolazioni per il procacciamento delle risorse.
Nel dibattito sull’aumento della popolazione, ci può venire in aiuto l’economista e demografo Thomas Robert Malthus ,il quale nel 1798 pubblicò il “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, dove teorizzò quella dottrina politica che prende il suo nome (Malthusianesimo) , e che ancora oggi rappresenta uno dei modelli di studio della demografia maggiormente tenuti in considerazione.
Malthus , elaborò la sua tesi analizzando le colonie del New England, dove la larga disponibilità di risorse forniva lo scenario ideale per indagare il rapporto tra risorse naturali e demografia. Tale osservazione era tesa a dimostrare come le risorse alimentari disponibili sarebbero state, a lungo andare, insufficienti a soddisfare i bisogni dell’intera popolazione. Egli raggiunse la conclusione che la popolazione umana e la disponibilità di risorse inseguono modelli di crescita differenti: la popolazione aumenterebbe secondo una progressione geometrica (2, 4, 8, 16, 32, …), mentre la produzione alimentare avrebbe una progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 5, 6,…). In pratica, un maggior numero di esseri umani si traduce, proporzionalmente, in una minore disponibilità di risorse per sfamarli. Si creerebbe una situazione insostenibile, causata dalla difformità dei due modelli di progressione. Qualora i mezzi di sussistenza non siano illimitati, si sarebbero periodicamente verificate carestie, con conseguenti guerre ed epidemie. Tali fenomeni erano da Malthus interpretati come “freni positivi”: a causa di queste sciagure il tasso di mortalità si alzava notevolmente e le risorse alimentari tornavano ad essere sufficienti per la popolazione restante.
È proprio in questo contesto che prende forma la cosiddetta “trappola malthusiana”, che ancora oggi attanaglia una larga parte della popolazione mondiale. Malthus, infatti, individua un livello minimo di reddito pro-capite, ovvero un livello di sussistenza. Ogni volta che quel livello viene sorpassato, si innesca la tendenza all’aumento della natalità (condizioni più agiate permettono di avere più figli). Di conseguenza, nel lungo periodo, si verifica un’espansione dell’offerta lavorativa che può essere soddisfatta solo tramite una riduzione del livello retributivo, che, inesorabilmente, riporta il reddito ad un livello sussistenza, dove, per i motivi elencati, rimane intrappolato.
La questione dello spazio fisico e dello sfruttamento delle risorse è forse quella più impellente, ed anche quella dal quale potrebbero derivare gli effetti più tangibili per noi e per il nostro pianeta. La crescita della popolazione va di pari passo con l’aumento della domanda di spazio, che viene sottratto all’ambiente naturale. Spazi urbani, pascoli, coltivazioni sono in costante aumento. Per ora, gli effetti del persistente aumento della popolazione sono stati disinnescati dall’accrescimento della capacità produttiva delle coltivazioni, come dimostra il fatto che la porzione di terreno necessaria per nutrire una persona, in media, è andata diminuendo nel corso del tempo.
Foreste, boschi, steppe e savane hanno ceduto importanti quote della loro superficie a favore delle attività umane, per fornire ad esse una sempre maggiore disponibilità economica.
I coltivi ed in particolar modo i pascoli (notevolemente in espansione anche per la crescita dei consumi di carne pro capite), nel 1990, richiedevano poco meno della metà della superficie terrestre.
La progressiva crescita e diffusione degli insediamenti della popolazione planetaria porta con sé determinate criticità. Tre in particolare meritano di essere ricordate, perché sono legate a delicate questioni ambientali che possono divenire critiche nel prossimo mezzo secolo, durante il quale la crescita della popolazione procederà ancora a velocità abbastanza sostenute. Si tratta dell’interferenza umana nelle grandi foreste, specialmente in quelle pluviali, la cui integrità è garanzia per l’equilibrio biologico/naturale; dell’intensificarsi degli insediamenti nelle aree più fragili, in particolare lungo le coste, o lungo le rive dei fiumi e dei laghi; dell’esplodere dei processi di urbanizzazione.
Da molto tempo l’azione umana sta riducendo il manto forestale naturale della terra, cambiandone i connotati. All’inizio del Novecento l’Europa aveva già perduto buona parte del suo mantello boschivo originario, così come negli Stati Uniti e in Canada, spazzato via dall’industrializzazione e dalla crescita della popolazione. La deforestazione della Foresta Amazzonica è probabilmente il fenomeno che, attualmente, desta maggiore preoccupazione e dibattito. Si stima che sia stata già abbattuta una percentuale vicina al 15/20 % del manto boschivo, per l’allevamento e le coltivazioni agricole. Va sottolineato il legame con il commercio internazionale: la Cina ha accresciuto esponenzialmente le importazioni di soia, alimento alla base della dieta dei maiali e di altri animali destinati alla produzione di carne. Ciò ha indotto gli agricoltori brasiliani, in particolar modo nella regione del Mato Grosso, ad aumentare la produzione, convertendo tratti di foresta in terreni coltivabili. Una politica più attenta da parte del governo era riuscita a frenare i processi di deforestazione, che avevano raggiunto la massima velocità a cavallo del 2000. Oggi, con l’ascesa al potere del nuovo Presidente brasiliano Bolsonaro, sembra che la Foresta Amazzonica sia nuovamente a rischio, viste le sue intenzioni di dare la precedenza alla costruzione di nuove infrastrutture, proprio a scapito della foresta.
Altra tematica legata a ciò è il concentrarsi della popolazione nelle aree costiere, le quali offrono molteplici vantaggi economici. Ma quelle costiere sono anche le aree più fragili, nelle quali l’incontrollata espansione degli insediamenti umani può portare ad avere problemi in termini d’inquinamento dell’acqua, di alterazione d’aree di pregio e di esposizione a rischi naturali (si pensi agli oltre 200.000 morti provocati dallo tsunami nell’isola di Sumatra nel 2004) destinati a crescere in conseguenza del riscaldamento del pianeta. La vulnerabilità ecologica delle aree costiere è stata messa a nudo sempre più di frequente dai ricorrenti disastri naturali che hanno colpito, anche di recente, fasce costiere particolarmente fragili delle Filippine o del Mozambico.
L’aumento della popolazione umana è una componente importante dei moderni cambiamenti climatici, della tropicalizzazione del clima, dell’espansione delle emissioni di gas serra. È un argomento assai intricato, che richiederebbe una trattazione più approfondita. È però ormai comprovato che l’aumento delle emissioni di gas serra dovuto alla crescita della popolazione e del volume delle attività umane sia alla radice del riscaldamento in atto da qualche decennio. Non che in epoca preindustriale le attività umane non avessero influenza sull’ambiente circostante, me esse producevano sicuramente un effetto più limitato e locale. Si calcola che il volume delle emissioni di gas serra (per i 4/5 anidride carbonica) tra il 1970 e il 2018 sia cresciuto dell’80% e questo incremento abbiano concorso tutte le attività umane (produzione di energia, trasporti, attività industriali e agricole, residenziali…). La crescita della popolazione sarebbe responsabile, secondo alcuni studi, di circa la metà di questo incremento. Naturalmente, vi è una relazione impari tra i vari paesi nelle emissione dei gas serra: tra il 1980 e il 2005 i paesi ad alto reddito hanno contribuito per appena il 7% alla crescita della popolazione mondiale, ma hanno concorso per il 29% alla crescita di emissioni di CO2, mentre i paesi a basso reddito hanno concorso per il 52% alla crescita demografica e appena per il 13% alla crescita delle emissioni.
La Terra, come sa chiunque faccia voli intercontinentali, sembra sempre grande ed apparentemente vuota.
Ma la realtà racconta un’altra storia. Dalla rivoluzione industriale in poi, la crescita della popolazione e l’intensificazione delle sue attività hanno reso percepibile la finitezza del pianeta su cui viviamo. La demografia del XXI secolo pone alla comunità internazionale un’ulteriore sfida: la conservazione di adeguati equilibri ambientali. Questi equilibri sono minacciati da una malgestita crescita delle attività umane di produzione e di consumo. Man mano che la popolazione cresce, occorre che l’utilizzo dello spazio rispetti sempre più criteri di razionalità ed equità, nel rispetto degli equilibri ambientali. Più la popolazione cresce, più questi vincoli si fanno stringenti e più rilevanti diventano le responsabilità degli individui, delle comunità e dei governi locali. È questo l’impegno che ci deve guidare per poter consegnare alle future generazioni un pianeta vivo, vitale e stabile. Diversi miliardi di persone dovranno ancora trovare spazio sul pianeta prima della fine del secolo.
Abbiamo, fin qui, comparato misure di crescita e conteggi di individui, come se questi fossero entità perfettamente comparabili nel tempo. Gli essere umani sono profondamente cambiati, se non nelle loro sembianze biologiche, sicuramente nei loro comportamenti. Sono cambiate le loro nicchie sociali ed ecologiche, che ne condizionano il comportamento. Il genere umano ha visto crescere esponenzialmente le possibili capacità di scelta, sia per quanto riguarda la riproduttività, sia per quanto riguarda la sopravvivenza. Si può scegliere il partner, quanti figli avere e quando averli, che forma dare a un’unione o a un nucleo familiare. Si possono scegliere gli stili alimentari e quelli di vita; si possono adottare le cure fisiche e mediche più appropriate; in alcuni paesi si possono scegliere addirittura le modalità di fine della propria vita. Naturalmente, molta strada resta ancora da percorrere, se si pensa che il controllo volontario delle nascite è ancora scarsamente diffuso in molte parti del mondo, nelle quali anche la sopravvivenza è precaria. Tuttavia un enorme cambiamento si è compiuto, e l’umanità oggi è assai più capace che in passato di “guidare” il proprio percorso. Ma su di essa pesa anche la responsabilità di come e dove guidarlo. Mi auguro verso una globalizzazione economica, ma anche umana e sociale, con effetti positivi sulle relazioni globali. Mi piace pensare che il mondo possa avviarsi in questa direzione.