L’insulto: le ferite ancora aperte del Libano
Cineconomia: L’insulto
- a cura di Marco Onado (professore, Università Bocconi) e Andrea Landi (professore, Università di Modena e Reggio Emilia) | sabato 1 giugno, Cinema Modena, 20.30 | a cura di Erica Turchet
Il Festival dell’Economia non si è fatto mancare niente e ha pensato anche ai cinefili. Sabato 1 giugno al Cinema Modena è stato proiettato il meraviglioso lungometraggio di Ziad Doueiri, L’insulto.
Un litigio nato da un’incomprensione per un tubo che sporge troppo, tra Toni (Adel Karam) meccanico libanese cristiano, che sta per diventare padre, e Yasser (Kamel El Basha), operaio palestinese, porta i due in tribunale.
La questione arriverà a coinvolgere importanti avvocati del paese, andrà a scavare così in profondità nel passato e nell’animo dei protagonisti della vicenda, che l’intero paese ne rimarrà scottato profondamente e i conflitti che si creeranno mineranno in modo serio la sua stabilità.
Il pregio più evidente di questo lungometraggio è indubbiamente la sceneggiatura, in cui le battute spaziano dalla retorica pomposa dei tribunali al linguaggio asciutto e crudo delle strade e della gente comune di Beirut: Doueiri è maestro nel destraggiarsi tra i due. La potenza de L’insulto a mio avviso si ravvisa proprio nella scelta ponderata delle parole, parole che fanno più male di un pugno nelle costole, parole che reggono il peso della storia di Toni e di Yasser, di un intero paese (e forse anche di tutto il Medio Oriente), parole eleganti e retoriche, ma vuote e contrapposte a silenzi, gesti, occhiate intrise di significato.
La storia potrebbe cadere nel banale ma il regista, mediante le arringhe degli avvocati, i continui rivolgimenti del processo e l’apporto continuo di nuove prove, rende il film intrigante e ricco di momenti di spannung argutamente misurati.
Notevole è anche la prova attoriale dell’intero cast; la critica ha evidenziato la prova di Kamel El Basha (il quale si è aggiudicato nel 2017 la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile), ma anche Adel Karam merita un plauso. Dall’interpretazione dei personaggi maschili, dai protagonisti della lite all’avvocato, si riesce a cogliere perfettamente lo stato di inquietudine che il regista voleva dare ai personaggi. È interessante d’altro canto la scelta di voler attribuire alle donne il ruolo di pacificatrici e il carattere di saggezza che le contraddistingue, che ricorda un po’ le donne di E ora dove andiamo? della regista Nadine Labaki (anche lei libanese).
Utilizzando tutti i caratteri del genere legal, Doueiri mette in luce il tema centrale di questa pellicola, ossia il dolore di un paese dalle vicende storiche complesse, in cui gli abitanti sono costretti a vivere come fratelli senza esserlo e anzi odiandosi in modo viscerale, dove vicende private e fatti storici non riescono a scindersi, dove anche un battibecco per un tubo che sgocciola può diventare un caso in grado di infervorare il paese.
Egli guarda alla storia senza ipocrisie e senza schierarsi da una parte o dall’altra, a differenza di quanto il governo libanese (che lo ha accusato di collaborazionismo con il nemico israeliano) ci voglia far credere; ma proprio perché lo fa senza troppi sentimentalismi, proprio perché sbatte in faccia la verità con una tale violenza, questo lungometraggio è un pugno nello stomaco, soprattutto per noi occidentali che tendiamo a schierarci sempre e a pensare di avere la soluzione a portata di mano.
Il film di Doueri vi porterà nell’abisso della coscienza umana fino ad odiare lo stesso regista perché vi troverete a non saper più distinguere il giusto dallo sbagliato, la legalità dall’illegalità e anche quelle giuste parole scritte nei codici penali e nelle nostre costituzioni avranno un significato vacuo.
Ma L’insulto, nell’essere dissacrante e cinico, nel toccare i nervi scoperti di una paese ancora ferito dalla guerra, vuole mandare un messaggio chiaro, che potrà sembrare banale e addirittura contraddittorio con quello che si è percepito dal film: il Libano deve iniziare un percorso che deve portare ad accettare l’altro. L’accettazione di cui parla Doueiri non è quella costrittiva della politica libanese, non deve essere l’amnesia della guerra civile, ma anzi deve essere un persistente ricordo della storia.
L’autentica accettazione religiosa, politica, umana parte innanzitutto dall’accettazione del dolore interiore e dalla capacità di evadere dalla sua prigionia, perché “il monopolio della sofferenza non ce l’ha nessuno”.
È questa la forza dirompente di questo cinema, capace ancora di insegnare il valore della solidarietà tra popoli, religioni e umanità diverse, passando attraverso il dolore comune della guerra e della storia, critico nei confronti di una politica che non l’ha molto digerito.