Il filosofo Varzi a Trentino 2060 «Avere poche alternative forse è conveniente, ma senza pensiero critico non siamo liberi»
L’ospite principale del primo incontro di Trentino 2060 è il professor Achille Varzi, uno dei maggiori filosofi italiani, che insegna Logica come ordinario alla Columbia University. Il tema è il pensiero critico, che farà da leitmotiv per l’intero ciclo di conferenze. La società ci determina – come gusti e credenze – e ci rende in un certo senso passivi: forse è proprio attraverso quell’esercizio del dubbio, quel mettere in discussione le proprie idee che possiamo davvero distaccarci dai nostri pregiudizi, e raggiungere un pensiero veramente diverso dal nostro. Altro ospite è un promettente laureando in filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, Federico Bina. Un filosofo affermato dialoga con un giovane: “La possibilità di cambiare idea” diventa così un’occasione di dialogo intra-generazionale e intergenerazionale. (introduzione tratta dalle parole dell’organizzatore Davide Battisti).
Federico Bina
«Abbiamo pensato di parlare dei temi della maturazione di un pensiero critico, e di cosa ci può dire la filosofia oggi. Partirei chiedendo al professore cosa sia il pensiero critico in termini di senso comune, e come la filosofia possa aiutarci nella maturazione e nella formazione del pensiero critico. Il pensiero critico è la possibilità di esercitare una riflessione che permetta di liberarci da una serie di pregiudizi, che consistono in ciò che siamo portati a fare in maniera acritica e irriflessiva. Ma come può un esercizio di pensiero critico aiutarci a liberarci dal pregiudizio, e quale aiuto ci può dare la filosofia?»
Achille Varzi
«Qui le montagne non hanno gli ascensori, non è come a New York. È meraviglioso…»
La domanda di Federico è certamente complessa, e la serata sarà dedicata a rispondervi. “Pensiero critico” è un’espressione formata da due parole, e innanzitutto bisogna dare la giusta importanza ad entrambe. Da un lato, ravvisiamo un bisogno di liberarci dai pregiudizi. Il “senso critico” e l’istanza “critica” rappresentano tale bisogno, e vanno declinati in vari modi e con diversi strumenti, i quali a loro volta vanno selezionati. Il fatto che la “critica” sia affiancata dalla parola “pensiero” ci fa pensare immediatamente che la filosofia sia utile nel processo “critico”. In prima battuta, ci può sembrare che teoria critica afferisca alla Scuola di Francoforte della seconda metà del XX secolo, ma dobbiamo affrancarci dalla prospettiva particolare e riferirci invece ad un contesto più generale di “pensiero critico”.
Evitiamo di fare retorica sul “liberarci dai pregiudizi“. “Libertà” è una parola fondamentale per noi, e abbiamo constatato che ne abbiamo bisogno. Aristotele diceva che la libertà è la possibilità di scegliere tra A e B. Nessuno ci può imporre né A né B, e noi possiamo scegliere. L’idea di libertà che oggi noi abbiamo è legata al pensiero di Aristotele. Del resto, generalmente riteniamo che se possiamo scegliere da soli, siamo liberi. Aristotele aggiungeva anche però, in quella che noi oggi definiremmo una nota a pié di pagina, che tutto però dipende dalla gamma delle alternative: se io scelgo tra A e B, ma sono limitato nella mia scelta di C, D, E, F, eccetera, e dunque posso operare una scelta solo tra quelle mi sono fatte vedere, il mio senso di libertà è un’illusione. Non sono libero perché non ho alcuna autorità sulla gamma delle alternative stesse. La libertà presuppone quindi che la gamma di alternative sia la più ampia possibile. Ad esempio, in riferimento a quella che una volta si chiamava pubblicità, visto che oggi la pubblicità è qualcosa di differente rispetto a quella televisiva di una volta, se ci sono mostrati solo alcuni prodotti alla televisione non siamo in grado di scegliere tra tutte le alternative possibili. “Liberarci” è possibile in funzione del nostro senso della possibilità, riferendoci ad Aristotele, perché altrimenti non ci liberiamo da nulla, passiamo semplicemente da un pregiudizio ad un altro.»
Federico Bina
«Il professore ha voluto fortemente che noi facessimo un dialogo, e una delle cose che ho sempre apprezzato nei professori di filosofia è l’umiltà. La possibilità di dialogare sullo stesso livello è meravigliosa.
Vorrei far notare che il problema, a volte, è che ci sono troppe alternative davanti a noi, e ci è richiesto un alto sforzo cognitivo. In riferimento a studi compiuti su scelte politiche ed economiche, è significativo che avere molte alternative richieda un grande sforzo – alle volte quindi sembrerebbe meglio non avere troppe alternative.
In primis, che ruolo può avere l’informazione circa le diverse alternative nel contribuire a renderci liberi? In secondo luogo, vi sono dei contributi invece legati ai nostri pregiudizi sulle alternative stesse?»
Achille Varzi
«Certo, avere poche alternative forse è conveniente, e ci troviamo a nostro agio, ad esempio, in un bipartitismo – poiché questo è cognitivamente più facile da gestire. Ma è un inganno. Proprio in quanto siamo animali che si trovano meglio di fronte a meno alternative, è facile nasconderci il numero delle alternative per chi vuole celarle al nostro sguardo. E non si parla solamente di Alternative con la A maiuscola, di scenari radicalmente diversi l’uno dall’altro, ma anche di alternative piccole e quotidiane, perché ogni nostro gesto è risultato, anche inconsapevole, di una scelta tra più alternative. Ciascuna azione è una scelta, e siamo costantemente chiamati ad agire: ogni volta che sceglieremo, il mondo si figurerà diversamente davanti a noi. È un continuo effetto farfalla, per il quale ogni scelta comporta necessariamente le sue conseguenze. In molti casi è chiaro che ciò non importi, e non gli vada data troppa importanza, e tuttavia non possiamo toglierci il peso delle nostre responsabilità. Il cinema ha sfruttato questo concetto, in pellicole come quelle di “Sliding Doors”, “Korridor”, eccetera. In altre parole: certo, è più facile gestire meno opzioni, epperò il nostro senso di libertà dipende da quanto le opzioni a nostra disposizione siano rappresentative dell’orizzonte del possibile con cui ci troviamo a fare i conti.
Ma come faccio a scegliere? Aristotele non considerava né sviluppava il “come scegliere“, anche se naturalmente affinché la nostra scelta sia non casuale, ma responsabile, è importante che vi siano consapevolezza e conoscenza, o meglio una serie di informazioni a nostra disposizione. L’informazione, e in particolare l’educazione in quanto forma chiave di condivisione delle informazioni, gioca un ruolo fondamentale, poiché noi dobbiamo conoscere la natura delle nostre alternative, per liberarci dell’enorme peso della continuità delle scelte che siamo chiamati ad effettuare. Questo è un compito vitale svolto dalla scuola e dai media, e purtroppo è facile sfruttare tale posizione per ridurre la scelta invece che aumentare la consapevolezza.
Ma l’informazione deve riguardare anche le nostre spalle, non solo le scelte che ci si parano davanti, lo sfondo da cui in ogni momento emergiamo nel considerare differenti alternative. Dobbiamo imparare a conoscerci, ad acquistare una consapevolezza di cui dobbiamo essere proprietari, essendo animali politici cresciuti in un certo ambiente rispetto che in altri, per cercare di portare in primo piano quegli elementi che ci rendono ciò che siamo. Altrimenti, ricadiamo nel provincialismo intellettuale: possiamo essere provinciali sia nell’analizzare la gamma delle alternative che abbiamo di fronte, che nell’esaminare lo sfondo da cui emergiamo. Orazio scrisse: “Vi sono più cose tra il cielo e la terra di quante ne sogni la tua filosofia“. La sua massima coglie perfettamente la miopia intellettuale e concettuale in cui spesso rischiamo di cadere.»
Federico Bina
«Concentriamoci su due dei pregiudizi da cui in qualche modo dovremmo liberarci. Il primo è la miopia verso il futuro – per come ci siamo evoluti, tendiamo ad occuparci più di ciò che ci sta più vicino, sia a livello individuale, visto che generalmente ci preoccupiamo in misura minore di eventi distanti, per via della maggiore tensione emotiva che suscitano eventi a noi più prossimi, sia a livello collettivo, perché nell’ambito dell’impatto delle minime azioni apparentemente non consequenziali non riusciamo a distinguere un collegamento o un percorso. In tal senso, come potremmo aggiustare le nostre scelte?
L’altro pregiudizio è relativo alla questione dell’informazione – il problema della filter bubble, è un altro dei dilemmi che principalmente siamo costretti a porci. L’esposizione continua e limitata rispetto a determinate informazioni possono condizionare le scelte di certe persone, e i social network sembrano non volerci aiutare. La filter bubble funziona sia in termini economici che in termini politici, e questo fenomeno comporta un effetto di chiusura dello spettro delle nostre alternative. Entra in gioco il cosiddetto pregiudizio della conferma: tendiamo a ricercare spesso informazioni che confermano le nostre idee e le nostre credenze invece che contrastarle, ed eliminiamo ogni scompiglio nei nostri sistemi di volontà e di valori.»
Achille Varzi
«Compero una pipa su Internet, e sono sicuro che per i prossimi quindici giorni troverò offerte di pipe. Ma perché dovrei passare la mia vita a comperare pipe? Loro sembrano pensarlo per davvero, e a prima vista mi pare idiota. Ma quando si amplia la gamma delle scelte da compiere, si crea un filtro, e così avviene un brainwashing. Io, senza accorgermi, mi trovo a dialogare con un mio profilo ideale, quasi a lottare con esso, e anche ciò mi sembra assurdo: perché devo lottare con un profilo ideale di me stesso? È un meccanismo perverso, e per non cascarci devo esserne consapevole.
Dietro ciò si nasconde il pregiudizio della conferma, che è la tensione a supportare piuttosto che confutare le nostre ipotesi. Nel ventesimo secolo, a livello scientifico, una delle più grandi rivoluzioni fu riuscire ad ammettere che un avanzamento nella ricerca sia frutto di una confutazione – i test che risultano per noi informativi sono quelli che mirano a falsificare una certa ipotesi. Le preferenze che abbiamo devono reggere al vaglio del pensiero critico. Il pensiero critico corrisponde, in questi termini, all’atteggiamento di chi si impegna costantemente nella verifica delle proprie idee e delle proprie ipotesi: se non riesco a falsificare un’ipotesi, questa regge al vaglio del pensiero critico. Vi sono delle risposte di conferma e delle risposte di stimolo: se vogliamo essere normativi a riguardo, è necessaria un’inversione di paradigma. La miopia verso il futuro lontano piuttosto che verso il futuro prossimo è a ciò legata. Oggi spesso ci troviamo a combattere per il futuro, ma anche per il passato, o più precisamente per difendere l’importanza del passato: il presente è, del resto, il futuro che diviene passato. Bisogna operare una differenza tra lo storico – la storia non si fa con i “se” – e il filosofo, che deve ricostruire anche degli scenari possibili.
Forse aveva ragione Hegel, quando diceva che se c’è qualcosa che abbiamo imparato dalla storia è che dalla storia non impariamo mai niente. Ma cosa possiamo imparare dal futuro? Purtroppo, di fronte a noi si parano dei pregiudizi cognitivi: non siamo infatti in grado di dare importanza a un futuro distante, per via di una mancanza di coinvolgimento. Siamo inclini alla tattica, e non alla strategia, per dirla in termini di scienza politica, e non soltanto a livello temporale, ma anche a livello spaziale, perché non riusciamo a coinvolgerci in ciò che ci è lontano: è un provincialismo del nostro pensiero.
Facciamo un esempio. Stephen Hawking diceva che i viaggiatori nel tempo non esistono perché non li vediamo. È un argomento doppiamente sbagliato: in primis il fatto che non siano tra noi è totalmente da appurare, e ma soprattutto non è assolutamente certo che questi siano interessati a visitarci, o abbiano avuto la possibilità di farlo. I turisti vanno a Venezia, non a Cogozzo in provincia di Brescia, e forse noi potremmo davvero essere la Cogozzo dell’universo. Quello di Hawking è un pregiudizio cognitivo che violenta le leggi della probabilità. Se noi esseri umani abbiamo la fortuna di poter comunicare in una lingua e di poter ragionare, forse una delle cose su cui dovremmo riflettere è la nostra continua incapacità di guardare oltre il nostro naso.
Forse dovremmo anche parlare della nostra incapacità di visualizzare l’orizzonte del futuro. La nostra capacità di lavorare per un mondo migliore è funzionale alla nostra capacità di immaginare mondi diversi. Se immaginiamo un solo mondo, il nostro lavoro-per rischia di essere del tutto inerziale. La filosofia mi appassionò per la prima volta quando lessi un capolavoro di Robert Musil, “L’uomo senza qualità”. In quel libro, il protagonista Ulrich si confronta con la sua incapacità di scegliere. In un capitoletto, detto“Il senso della possibilità”, egli manifesta una non volontà di uccidere le possibilità nel momento della scelta. La scienza che si occupa della possibilità è la filosofia, e forse è accompagnata solo dalla matematica, ma esclusivamente sotto certi aspetti, perché è nella matematica tutto è necessario e dunque il possibile nuovamente ci sfugge. Mi convinsi, leggendo, che la filosofia fosse la scienza della possibilità, che non si occupasse unicamente di come le cose sono, ma anche di come potrebbero essere, e alle volte di come dovrebbero essere. Non è un compito facile, tanto che la storia della filosofia, si potrebbe dire, ha compiuto pochi progressi. Ma dobbiamo far sì che il nostro senso della possibilità, il nostro pensiero critico, sia sviluppato. E il pensiero critico non è sempre quello del bastian contrario, perché a sua volta anche il bastian contrario rischia di essere vittima dei suoi pregiudizi – il pensiero critico coinvolge infatti una consapevolezza del senso delle possibilità, del ventaglio delle possibilità. È fondamentale non solo la capacità di immaginazione, ma anche la voglia di lasciarci sorprendere dalla realtà e dalla possibilità che ci stanno davanti – come disse Platone, la filosofia nasce col senso della meraviglia. Un altro celebre autore, molti secoli dopo, disse che se il mondo fosse come ce lo aspettiamo, non esisterebbe nemmeno la filosofia. Basta sollevare un foglio per vedere ciò che non avevamo nemmeno pensato di poter notare. Ad esempio, Kant prima di scrivere la “Critica della ragion pura” si chiese come avrebbe potuto spiegarsi la differenza tra la mano destra e la mano sinistra, nonostante queste gli apparissero esattamente uguali. Sono proprio queste le domande da cui partire, e se non ci rendiamo conto che esistono non riusciremo mai ad evitare di prendere tutto per scontato. Liberarsi dai pregiudizi non è un’operazione militare, ma consiste semplicemente nell’imparare a non dare nulla per scontato. È una soluzione facilmente implementabile e praticabile: ogni tanto ci si può porre una domanda anche frivola, e dunque liberarsi da un pregiudizio. I filosofi ogni tanto sono bravi a porsi delle domande che nessuno si pone, ma spesso non sono capaci a rispondervi. È la domanda che ci deve lasciare all’erta, non la risposta: per forza di cose noi impariamo le risposte, nella nostra educazione, ma frequentemente non siamo in grado di dare la giusta importanza alle domande. Prima delle risposte vengono le domande.
Vi racconto una breve storia per spiegare questa affermazione. Ad un convegno mondiale dei filosofi, nel bel mezzo di una delle molte assemblee plenarie, ad un certo punto, a mezz’aria compare un angelo. L’angelo saluta i filosofi: “buongiorno, sono qua per una missione divina: fate una domanda e io vi risponderò. Tornerò domani, tra ventiquattr’ore“, e subito sparisce. “Wow, che occasione!” – e subito tra i filosofi esplode il visibilio. E tuttavia si pone un problema: quale potrebbe essere la migliore domanda da porre all’angelo, il miglior modo per sfruttare l’occasione? Un filosofo apparentemente furbo suggerisce di chiedere all’angelo quale sarebbe la migliore domanda da fargli. Ma forse non sarebbe bene farsi dare una risposta così importante per ottenere solamente una domanda. E allora un altro filosofo afferma che sarebbe bene chiedere non la migliore domanda, ma la risposta a quella domanda. Eppure, anche così sorgerebbe un inghippo: se la risposta fosse un semplice “sì”? Infatti, senza conoscere una domanda, una risposta non vale nulla. La discussione continua ininterrottamente, finché un filosofo veramente sveglio propone di chiedere all’angelo quale è la coppia che consiste nella migliore domanda seguita dalla migliore risposta a quella domanda. La soluzione viene approvata all’unanimità, tra la contentezza dei partecipanti. Dopo qualche tempo, ricompare l’angelo: “signori, ci avete pensato?“. Il presidente della commissione dei filosofi pone infine la domanda, quasi tronfiamente. L’angelo, divertito, risponde: “chiaramente è la combinazione della domanda che mi appena hai posto, seguita dalla risposta che ti sto dando!“, e svanisce nella delusione generale. Il gioco tra domanda e risposta è molto più complicato di ciò che pensiamo.»
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