Il filosofo Paolo Costa a Trentino 2060: «Quanto fondamento c’è nel terrore di perdere il controllo del nostro destino?»
L’intelligenza artificiale è una tecnologia che ci riguarda tutti, e che avrà ricadute enormi sulla società e sull’economia del domani. Noi ci vogliamo dunque chiedere: quali sono le problematiche che l’intelligenza artificiale porta oggi e che ci porterà nel futuro? Il secondo incontro di Trentino 2060 mette al centro questo interrogativo, e cerca di darvi una risposta costruendo un dialogo tra la scienza e la filosofia, per fornire una visione completa. A parlarne sono gli ospiti Chiara Ghidini, ricercatrice senior e direttrice dell’unità Process and Data Intelligence presso la Fondazione Bruno Kessler, e Paolo Costa, ricercatore senior presso la Fondazione Bruno Kessler, già professore associato di Filosofia Morale e Politica. A moderare l’incontro è l’organizzatore Davide Battisti. (introduzione tratta dalle parole dell’organizzatore Zeus Fiorese)
Davide Battisti
Dopo aver interrogato la scienza, passiamo ora alla filosofia. Quando parliamo di allocazione e ri-allocazione delle risorse umane, ci viene innanzitutto da pensare ai problemi che possono scaturire dall’innovazione tecnologica. La filosofia ci può essere utile quando ragioniamo su come l’intelligenza artificiale potrebbe essere tanto un beneficio quanto un pericolo per la nostra comunità, per la nostra polis, e al contempo quando riflettiamo sulla sensatezza delle nostre aspettative. Come domanda introduttiva, volevo dunque chiederti che cosa la filosofia possa dirci in merito all’intelligenza artificiale.
Paolo Costa
“E quindi forse un giorno potremo inventare una macchina, una tecnologia adatta per produrre una volontà realmente generale, un’intelligenza sovraordinata alla nostra, che emerga spontaneamente dalla compresenza di una molteplicità di individui all’interno di uno spazio pubblico…”
Mi stai consegnando un compito non semplice, e tuttavia spero di riuscire a risponderti al meglio delle mie possibilità. Noi, figli della democrazia, abbiamo la tendenza di immaginarla come un sistema che ci si manifesta in tutta la sua maestosità quando ci rechiamo alle urne per votare alle elezioni nazionali, quasi ipnotizzati, esercitando così la nostra sovranità popolare. Distacchiamoci però dalla visione della democrazia in quanto forma di governo guidata da una serie di complesse procedure. Ostiniamoci invece a concepirla come una forma di vita, grazie alla quale la persona adulta può acquisire le ragioni sufficienti per legittimare un potere, o per obbedire a un comando. Ne intuiamo che in un processo democratico ci si aspetti che venga a formarsi la volontà generale di una determinata popolazione, la quale sovente vive sotto i confini di un certo Stato. Nel cuore dei processi democratici sta dunque la deliberazione, e la nostra speranza è che sia una forma di scelta intelligente, ponderata, riflessiva.
Come funziona la riflessività umana? Immaginiamo di trovarci davanti ad una matassa di filo da srotolare. A prima vista ci appare una mansione quotidiana, banale se vogliamo: il primo impulso è tirare un capo della matassa. Ma la nostra soluzione non funziona, e il problema s’aggroviglia ancor di più. Quel che allora facciamo è porci, per così dire, “a lato” della nostra impresa, esercitando una riflessione: esaminiamo la matassa, e cerchiamo di comprendere quale sia la via migliore per risolvere il nostro problema. Può capitare però anche che ci si cominci a domandare se abbia senso tentare di affrontare il complesso enigma della matassa. In altre parole, in una comunità umana possiamo notare l’esercizio di entrambe le sopracitate forme o fasi di riflessività: ne impieghiamo una più ristretta, occupandoci di problematiche di natura processuale e scegliendo le soluzioni migliori e più convenienti, e una più estesa, quando ci chiediamo quale sia il senso complessivo del processo che stiamo vivendo. E in fondo così accade che filosofi lo si diventi, o per obbligo o per necessità.
Tuttavia, non è facile esercitare questa riflessività doppia. Se ripenso a quando avevo diciannove anni, ricordo più volte di aver tentato di immaginare quale sarebbe stato il mio avvenire. Se io, Paolo Costa, tornassi indietro all’anno 1985, cosa potrei afferrare del futuro, impiegando la mia capacità di riflessione? Se tornassi ad essere il mio “io” del passato, quale proiezione potrei ricavare? Alcuni elementi di pensiero emergerebbero da una riflessività ristretta, e sicuramente mi domanderei se scegliere o meno un percorso di studi legato alla filosofia. Altri sarebbero invece di natura più estesa, e molto probabilmente si rivelerebbero dei veri e propri azzardi. Il fenomeno storico della provincializzazione dell’Europa una cinquantina di anni fa sarebbe stato impensabile, eppure oggi il Vecchio Continente non si colloca più al centro del mondo: potenze demografiche come la Cina e l’India l’hanno oramai superato, e ne hanno forse addirittura definitivamente soppiantato l’egemonia. Negli anni Ottanta, nessuno si sarebbe potuto immaginare il ruolo centrale che la religione avrebbe giocato nell’ancora breve storia del ventunesimo secolo. E chi del resto avrebbe mai scommesso, quando ancora dominava la bipolarità tra sovietici e statunitensi, che il Muro di Berlino sarebbe crollato nell’allora vicino 1989? Come avremmo potuto concepire la distruzione delle culture politiche che ne sarebbe conseguita, e specie quella che sarebbe poi avvenuta in Italia con Tangentopoli? Qualcuno avrebbe affermato che dei partiti allora esistenti non ne sarebbe sopravvissuto neanche uno?
Se già allora l’esercizio esteso della riflessività ci appariva così complicato, oggi ci esponiamo al rischio di un fallimento ancora più macroscopico del nostro giudizio. Proviamo insicurezza, ma allo stesso tempo non possiamo fare a meno di tentare una figurazione del nostro futuro. Dobbiamo proseguire il discorso, affrontare l’avvenire, per portare beneficio al processo della deliberazione democratica, che costituisce per noi umani adulti l’unica possibilità di essere protagonisti e non vittime della nostra storia. Non possiamo dunque evitare di chiederci cosa vi sia di “intelligente” nell’intelligenza artificiale e cosa invece non vi sia di “naturale” nella macchina. In altre parole, se quella artificiale è una forma di “intelligenza” diversa dalla nostra, abbiamo delle ragioni plausibili per doverla temere? La dobbiamo tenere a debita distanza perché non è una forma naturale di intelligenza, oppure siamo solamente impauriti dalla sua natura non umana?
Se è vero che nei nostri pensieri si riflettono caratteri psicologici legati a determinate sfide che ci troviamo davanti, e che nei ragionamenti umani prendono vita le paure, le ansie, le aspettative, gli entusiasmi o gli abbattimenti, quanto fondamento c’è nel terrore di perdere il controllo del nostro destino? Saremo davvero i testimoni della sostituzione dell’intelligenza artificiale a quella umana? Saremo noi, creatori delle macchine, a distruggere questo mondo e a condannare a morte il destino della specie? Forse è proprio la filosofia a poterci aiutare nel cercare delle risposte a certi nostri modi di vedere il mondo.
Davide Battisti
Abbiamo infine colpito il segno. L’intelligenza artificiale ci costringe ad immaginare un nuovo decentramento dell’umano. In tal senso, possiamo pensare a Copernico, che dimostrò che la Terra non fosse al centro dell’universo, e a Darwin, che impose la visione dell’essere umano come un anello della catena evolutiva di una determinata specie. Analogamente, se l’intelligenza era una proprietà intrinsecamente umana. D’ora in poi non lo sarà più, e forse l’intelligenza delle macchine riuscirà perfino a superarci. Veniamo così spesso presi dallo sconforto, dalla paura di perdere il controllo. Non è un caso che nella recente letteratura si sia cominciato a narrare prevalentemente di un futuro distopico, ormai sfuggito al controllo dell’uomo, e dove la tecnologia ha trasformato l’uomo in un essere passivo. Secondo te quale sarà la strada che imboccheremo? L’accettazione passiva del progresso tecnologico è l’unico modo che abbiamo per confrontarci con l’intelligenza artificiale, oppure ci sono delle altre vie che l’umanità potrebbe seguire?
Paolo Costa
Abbiamo deciso di chiamarci homo sapiens. La crisi è profonda, perché stiamo venendo privati dell’univocità della nostra intelligenza, di quel “sapiens” che tanto credevamo ci contraddistinguesse. Nel ricostruire la genealogia del moderno, ci rendiamo conto di quanto la perdita di una dimensione centrale si riveli per noi un trauma. Ci scordiamo però spesso che i medievali credevano che il centro fosse una posizione indesiderata: scavando nella nostra storia, scopriamo anche che il bisogno di antropocentrismo è un carattere dell’epoca moderna. Ai momenti di crisi si è poi sempre contrapposta una maestosa visione dell’umano. Nel corso della storia, l’essere umano è stato capace di accettare di decentrarsi, ma nel profondo il narcisismo è sempre stato in agguato. È sempre infatti rimasta in noi l’idea di fondo che una creatura capace della perspicacia e del coraggio di riconoscere certi aspetti di sé dovesse possedere qualcosa di grandioso. Nelle discussioni sull’intelligenza artificiale, di frequente noto proprio questa tipica oscillazione del moderno tra picchi di ottimismo e narcisismo e periodi di pessimismo e debolezza.
Non possiamo smettere di oscillare. Possiamo però dialogare insieme, e capire quale sia l’innovazione che ci aspettiamo, e se le nuove pratiche sociali che noi stiamo sviluppando siano all’altezza delle innovazioni tecnologiche, e dunque siano espressioni di innovazioni morali. Ad esempio, le potenzialità della rivoluzione industriale furono compensate da invenzioni morali, come le idee di democrazia universale, fondata sui diritti umani, e di libertà negativa della persona, di protezione della sfera privata di ciascuno. Le innovazioni morali servono come antidoti rispetto a dei fenomeni di oggettivazione e reificazione della vita umana. In sintesi, vogliamo rispondere alla seguente domanda: quali saranno le innovazioni morali che ci dobbiamo aspettare?
In termini di democrazia, forse possiamo provare ad immaginare un’innovazione morale che possa tentare di risolvere una crisi ormai divenuta radicale, legata alla sfiducia nella possibilità della democrazia di compensare da sé i propri difetti. La democrazia è sì accettata come sistema imperfetto, ma intercorre una certa differenza tra il vedere una serie di errori come parte di un processo che possiede le risorse per compensare ciascuna imperfezione, e una ferrea convinzione basata invece sul fatto che l’imperfezione della democrazia sia una caratteristica strutturale. È per colmare le voragini create dalla sfiducia democrazia che abbiamo prodotto il sogno della democrazia digitale.
Rousseau aveva capito quale era il problema centrale della democrazia: noi siamo tutti dei singoli individui dispersi, che però devono produrre una volontà generale. Quando non riusciamo a produrla, è perché anche quando ci incontriamo continuiamo ad esistere come singoli individui separati. Dovremmo invece andare a fonderci, superare i nostri interessi individuali. Dovremmo dare vita ad una una volontà autenticamente generale, e non a una sommatoria degli interessi di tutti i singoli individui coinvolti nella comunità. Non potrebbe forse allora esserci una nuova tecnologia che ci consenta di raggiungere questo scopo? Non potrebbe un giorno sorgere un nuovo strumento di mediazione impersonale che non coinvolga volontà individuali, una tecnologia adatta per produrre una volontà realmente generale, un’intelligenza sovraordinata alla nostra, che emerga spontaneamente dalla compresenza di una molteplicità di individui all’interno di uno spazio pubblico?
Il mio dubbio è che puntare tutto sulla macchina sia una mossa de-responsabilizzante, che cerca di compensare in maniera acrobatica la strana sensazione psicologica dell’oscillazione tra la debolezza, il pessimismo, la mancanza di controllo del proprio destino, e la potenza, l’ottimismo, la percezione di un possibile dominio sul proprio futuro. Per uscire nella maniera più elegante e meno tragica possibile dal dilemma della scommessa moderna, dobbiamo trovare una maniera armonica ed equilibrata di pensare al caratteristico pendolare del nostro essere umani moderni.
Nella nostra vita, a prevalere non sono le situazioni estreme, la mancanza di soluzioni o il totale controllo. Non abbiamo bisogno di forzarci per trovare una soluzione unica, assoluta e perfetta, come l’utopia della democrazia digitale, né siamo costretti ad affermare che una via d’uscita non potrà mai esistere perché il mondo è marcio e tutti sono corrotti. I momenti di verità della nostra esistenza non si trovano ai suoi limiti. Sovente si annidano nei luoghi periferici che noi raramente osserviamo. L’intelligenza artificiale non risolverà ogni nostro problema, ma con essa forse potremo capire meglio quale sia la ricetta per toccare la verità della nostra esistenza.