Una riflessione sull’autonomia a Trentino 2060: «Dobbiamo essere sinceri, per far innamorare le persone dell’autonomia»
L’autonomia è solo un privilegio economico o è qualcosa di più profondo? Bisogna poterne parlare senza produrre della facile retorica, e finalmente liberarci dai soliti giri di parole. In occasione del terzo appuntamento di Trentino 2060, gli ospiti sono d’eccezione: due storici trentini, Giuseppe Ferrandi, dal 2007 direttore della Fondazione Museo Storico del Trentino, e Marco Odorizzi, direttore della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, discutono del passato, del presente e soprattutto delle prospettive future dell’autonomia, per meglio comprendere cosa realmente significhi essere autonomi. A moderare l’incontro è il vicepresidente dell’associazione Agorà, Zeus Fiorese. (introduzione tratta dalle parole dell’organizzatore Davide Battisti)
Zeus Fiorese
Questa sera parleremo di autonomia, e lo faremo cercando di approfondire alcuni suoi aspetti che vengono solitamente tralasciati. Intendiamo gettare uno sguardo sul passato, sulla nascita dell’autonomia, e anche interrogarci sui problemi del presente, ma soprattutto cercheremo di immaginare quali potrebbero essere gli scenari futuri. Cominciamo con una domanda generale, che inquadri brevemente il contesto di cui ci vogliamo occupare. Cerchiamo di capire cosa sia l’autonomia. Cosa significa essere autonomi? Quale era l’autonomia che Alcide Degasperi intese perseguire e come si configurò il dibattito che portò alla sua nascita?
Marco Odorizzi
Del rapporto tra Alcide Degasperi e l’autonomia potremmo parlare molto a lungo. Per essere incisivi nella nostra riflessione, dobbiamo provare ad evidenziarne i punti fondamentali. Innanzitutto, Alcide Degasperi non fu mai un teorico: per lui l’idea di autonomia fu un portato soprattutto storico. Dobbiamo infatti ricordarci che Alcide Degasperi era un italiano d’Austria, nato in un Trentino immerso in una situazione difficoltosa e travagliata, come lo erano molti dei territori europei di confine del XIX secolo. All’inizio dell’Ottocento, con la dissoluzione del Sacro Romano Impero e con la costituzione dell’Impero austro-ungarico, le tendenze accentratrici dello Stato moderno presero il sopravvento sulle grandi tradizioni del diritto consuetudinario e delle autonomie delle comunità locali. I trentini si trovarono improvvisamente inquadrati nel Land del Tirolo, come la minoranza italiana in una provincia che aveva Innsbruck come capoluogo. Trento perse molta della sua centralità, e la classe dirigente trentina si vide sfuggire di mano la possibilità di influire politicamente sulla vita e sullo sviluppo della città.
E così iniziò la lunga storia della ricerca dei trentini, italiani d’Austria, di un ambito amministrativo che permettesse loro di valorizzare e mantenere la propria peculiare identità. A dir la verità, l’Impero aveva concesso delle garanzie. Dal 1867, la Legge Fondamentale dello Stato austriaco riconosceva all’Articolo 19 l’uguaglianza di tutti i ceppi linguistici. Vi erano dunque alcune forme di tutela, ma i trentini non ritenevano comunque che fosse loro consentito di esprimere la volontà di autogoverno del territorio. In effetti, essere minoranza limitava le ambizioni della città di Trento: sotto l’Impero austriaco un’Università di lingua italiana non sarebbe mai stata concessa, minando le velleità degli italiani d’Austria di formare da sé una classe dirigente.
Alcide Degasperi, riconoscendo le particolarità della comunità trentina, si accodò a richieste autonomiste che erano nate molto prima di lui, diventandone uno dei maggiori portavoce. L’idea di autonomia degasperiana nacque all’interno di un dibattito svoltosi molto prima delle due guerre mondiali e della costituzione della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige. Degasperi, nel maggio 1919, appena dopo la fine della Grande Guerra, di fronte alla riannessione allo Stato italiano, volle ribadire le velleità di autogoverno del Trentino, e da quelle sue dichiarazioni possiamo comprendere cosa significasse per lui l’autonomia: la spiegò come “la migliore amministrazione possibile fatta tutta per il popolo, e più che possibile per mezzo del popolo stesso“. La fede degasperiana nell’autonomia nacque proprio dall’idea che, mantenendo l’amministrazione vicina ai particolarismi dei territori, si potesse ottenere un vero protagonismo dei popoli. In altre parole, dove il peso specifico di ciascuno fosse stato più significativo, il cittadino avrebbe davvero potuto fare la differenza.
Tuttavia, l’autonomia richiesta dai trentini nell’immediato Dopoguerra non arrivò, e anzi lo Stato fascista si rivelò ancor più fortemente centralista, creando complesse problematiche di convivenza con i vicini sudtirolesi. Si giunse, nel Secondo Dopoguerra, a dover urgentemente gestire una difficile coesistenza etnica nella Regione del Trentino-Alto Adige. Fu proprio allora che, per scacciare il timore di un possibile scontro interculturale, fu adottato un modello di autogoverno per i territori vicini alla frontiera con l’Austria. L’influenza della peculiarità storica nella visione degasperiana è dunque fondamentale, e del resto se una visione è portata dalla storia, si configura come un continuo divenire. Degasperi stesso ne era ben consapevole: l’autonomia non viene mai data una volta per tutte. Parlando di autonomia, spesso noi trentini siamo convinti di essere dalla parte giusta della storia, e che essere autonomi sia il nostro inevitabile destino. Degasperi in tal senso fu molto duro, e ci mise più volte in guardia: secondo lui l’autonomia trentina si sarebbe giustificata, sarebbe maturata e avrebbe resistito solo dimostrando la capacità di essere migliore della burocrazia statale e più efficiente del governo centrale, non facendo concorrenza allo Stato per spendere quanto più possibile, ma provando di saper investire adeguatamente, per amministrare al meglio il Trentino. Le domande focali per noi sono allora tre. Come può l’autonomia servire a governare per mezzo del popolo? Come si può coinvolgere il popolo nel governo del territorio? L’autonomia ha avuto successo nell’essere più vicina alla comunità?
Giuseppe Ferrandi
“Personalmente ho scarse possibilità di essere presente nel 2060, ma la speranza è sempre l’ultima a morire“.
Ben poche volte mi sono trovato a dibattere sull’autonomia con più di dieci, quindici spettatori. Ciò dimostra che rendere attrattivo il tema dell’autonomia, molto spesso dato per scontato, non è affatto facile. L’esperienza autonomista viene continuamente a galla nella nostra vita quotidiana, ma non viene mai debitamente messa in discussione, e di conseguenza noi stasera abbiamo il compito di lavorare su un argomento che stenta ad essere oggetto di profonde critiche e riflessioni.
L’autonomia è un termine che evoca una certa ambiguità, perché l’autonomia si compone sì di uno statuto, sì di un insieme di leggi, sì di disposizioni istituzionali necessarie per consentire l’autoregolazione del territorio e istituire una particolare relazione tra comunità autonoma e Stato centrale, ma coinvolge soprattutto il sentirsi autonomi, un sentimento che insieme è cultura e vita dell’autonomia. Purtroppo però le due anime non procedono parallelamente: possiamo avere un formidabile meccanismo di legittimazione che favorisca la nostra autonomia, ma se non ci sentiamo autonomi il meccanismo stesso si inceppa, e finisce per svuotarsi di significato. Se al giorno d’oggi nella nostra comunità percepiamo l’autonomia come un privilegio o una macchina finanziaria, ciò significa che siamo già spacciati. Dobbiamo ripartire discutendo, dibattendo, riflettendo, per capire se in Trentino saremo in grado di produrre e garantire una cultura dell’appartenenza all’autonomia, della responsabilità nei suoi confronti e della partecipazione politica e sociale.
Se riprendiamo il pensiero degasperiamo, ci rendiamo conto che il territorio ha prodotto una serie di riflessioni che potrebbero essere riutilizzate e rivisitate. E tuttavia vi sono diverse questioni che si parano davanti a noi, se e quando cerchiamo di proiettarci verso il futuro dell’autonomia. Innanzitutto, bisogna vedere se nel 2060 ci sarà ancora possibile impiegare il termine “autonomia“. Da un punto di vista storico, il sentirsi autonomi, il desiderio di auto-governarsi ha delle origini quasi millenarie. Ci è però necessario capire a quale ambito si riferisca questo sentimento di autonomia. Autonomo può essere l’adolescente che comincia ad emanciparsi dai genitori, autonoma può essere una piccola comunità, un territorio, una minoranza, e così via. In tal senso, possiamo dire che il processo storico dell’autonomia nello specifico ambito politico-istituzionale è un cammino durante il quale lentamente le comunità che hanno abitato il territorio trentino hanno perfezionato la loro richiesta di autonomia.
Tuttavia, per richiedere un’autonomia deve esserci un qualcuno da cui distaccarsi: l’eventuale inesistenza di un potere centrale ci impedirebbe la rivendicazione di un’autonomia. Storicamente, i poteri centrali sono comparsi sulla scena storica solo di recente, con Napoleone Bonaparte, lo Stato austriaco, e tutte le comunità che pretesero di trasformare la propria nazione in un moderno Stato nazionale. L’autonomia è allora una relazione tra un territorio e una comunità, che deve fare i conti con determinate culture politiche, statuali, giuridiche, le quali possono seguire un modello federale o un modello centralistico.
L’autonomia può inoltre essere attenta agli anticorpi, rispettosa dei territori, oppure essere becera e livellatrice. Al momento ritengo che il nostro Paese abbia fatto dei significativi passi all’indietro nella sua capacità di concepirsi democraticamente in modo articolato. Stiamo esperendo una deriva centralistica come tentativo di risposta ai fenomeni di globalizzazione che attraversa il centro, la destra e la sinistra. Frequentemente ci spiegano che nei momenti di crisi bisogna essere efficienti, che per essere efficienti si è costretti a porre vasti territori sotto l’amministrazione di un unico ente, e che per farlo non si possa rimanere attenti ai contropoteri, per semplificarci il gioco del controllo. Dobbiamo restare vigili, perché certi argomenti sono l’acqua di terreno per cominciare a minare la nostra autonomia. In tal senso, una lettura fondamentale può essere quella di Claus Gatterer, storico e giornalista originario di Sesto Pusteria, che negli anni Novanta scrisse un libro intitolato “In Lotta contro Roma“. Gatterer, che era un sudtirolese, teorizzò che l’unico modo per tutelare ed affermare una cultura dell’autonomia fosse collegarsi a tutte quelle comunità che nei secoli in Italia hanno provato a trovare un esito diverso al rapporto Stato-Regione di stampo centralista. Arrivò persino a sostenere che l’autonomia del Sudtirolo andasse difesa non dal Brennero a Salorno, ma dovesse venir protetta all’interno di un paradigma più ampio, guardando con simpatia ogni possibile seria valorizzazione dei protagonismi di ciascuna comunità.
Se ci illudiamo che un potere centrale possa risolvere tutti i problemi, abbiamo già perso in partenza. Chi ha a cuore l’autonomia deve capire che non si difende il Trentino costruendo delle barricate e presidiando i confini, perché quando decidiamo di arroccarci siamo già dalla parte della residualità, siamo pochi e siamo deboli. È un’imperativo: noi dobbiamo valorizzare sia la cultura dell’autonomia, il sentirsi autonomi, che i suoi meccanismi legislativi. Credo però che non sia ormai più interessante raccontare l’autonomia a suon di statuti, e che sia doveroso iniziare a concentrarsi sullo stato di salute del sentirsi autonomi, ed esaminare con attenzione cosa significhi e cosa abbia significato la parola “autonomia“.
Marco Odorizzi
Prima di lasciare il terreno della storia, magari ci può essere utile ricollegarci quanto si diceva sul rischio di difendere l’autonomia non nella sostanza, ma nella forma. Spesso sento dire che l’autonomia del Trentino è millenaria, riconducendola alla tradizione dell’autogoverno locale. Innanzitutto, l’autonomia di cui parliamo oggi c’entra ben poco con quella del passato, ma soprattutto non mi torna il ragionamento quando concretamente proviamo a fare degli esperimenti di vero autogoverno locale. Ci richiamiamo con nostalgia ad una determinata tradizione, ma poi nel presente chiediamo continuamente alla Provincia Autonoma di aiutarci, di fare qualcosa per noi, e non di supportarci affinché noi cittadini possiamo agire in autonomia. Mi sembra un controsenso: mentre ci si racconta la narrazione di un’autonomia connaturata al genoma trentino, quando la affidiamo al potere pubblico l’autonomia diventa totalmente de-responsabilizzante, e consiste di fatto in una delega ad un potere centrale più piccolo di quello statale, portandoci a perdere proprio quella capacità di “fare-da-sé” che costituisce il nucleo del concetto di autonomia.
Il “fare-da-sé” non è una caratteristica che possiamo semplicemente affibbiare a delle istituzioni, ed è invece una prerogativa di una cittadinanza responsabile, altrimenti ci rimane in mano solamente una certa retorica che ben conosciamo, e non sicuramente un buon modello di amministrazione del territorio. Io ho purtroppo la percezione che la mia generazione si sia abituata a chiedere all’autonomia, per esempio, una sicurezza data dall’esterno, che è l’esatto contrario del mettersi in gioco, del “fare-da-sé“. Io credo invece che l’autonomia rappresenti l’occasione di stimolare con avveduta coscienza e conoscenza i territori a dare il meglio. I territori devono rivitalizzarsi e ritrovare la capacità di andarsi a guadagnare il proprio protagonismo, senza limitarsi a vivacchiare sulle spalle di un potere pubblico che costituisca una facile scusa per de-responsabilizzarsi. Ed è forse stato il periodo di grande benessere che ci ha preceduti ad abituarci a domandare soltanto e costantemente una sicurezza, invece di mettere sul piatto una reale disponibilità al rischio, anche economico.
Zeus Fiorese
Si può dire che l’autonomia sia parte di un divenire. Ma cos’è l’autonomia oggi? È una questione piuttosto spinosa, visto che parlarne in Trentino è un tabù. Molti di noi ancora ricordano di quando Enrico Mentana, tempo addietro, al Festival dell’Economia, disse che l’autonomia trentina non ha più senso, vista l’assenza di sostanziali differenze tra il Trentino e le altre regioni italiane. Le sue parole suscitarono una violenta reazione del mondo politico trentino.
Tuttavia, forse il problema nasce proprio dalla politica: diversi partiti hanno spesso espresso posizioni critiche nei confronti dell’autonomia, mentre i loro principali esponenti trentini si dichiarano fermamente e convintamente autonomisti. Sembra che in Trentino non si possa parlare di autonomia, se non per elogiarla, e ci si sente quasi degli eretici quando si apre un dibattito su di essa. Quale è, secondo voi, il perché di tutto questo? Come si può pensare di portare la nostra autonomia nel XXI secolo? Come si può pensare di migliorarla, quando il poco che riusciamo ad esprimere sull’autonomia sembra vecchio e ormai vuoto?
Marco Odorizzi
Dovremmo essere tutto sommato grati a Mentana, che a distanza di un paio d’anni da quell’incontro ci dà ancora motivo di riflettere. In quell’occasione il giornalista fu parecchio antipatico, e portò le sue obiezioni in maniera forse grossolana. Tuttavia, gli attacchi all’autonomia non infastidirono i presenti: furono le istituzioni a incaricarsi di difenderla. Come però già detto in precedenza, non si possono lasciare le istituzioni sole nella difesa dell’autonomia, perché se no dimostriamo di aggrapparci a un concetto che non incarniamo, che pare non riguardarci affatto. Dopodiché, quando Mentana ci chiese quale differenza vi fosse tra un trentino e un veneto, si stava ponendo un interrogativo sbagliato. A noi interessa se l’autonomia sia un buon modello o meno. Se la risposta fosse affermativa, casomai allora dovremmo domandarci cosa manchi ad altri territori come il Veneto per poter cercare di imboccare una strada autonomistica. Il Trentino, pur con tutte le sue pecche, ha dimostrato che l’autonomia ha un potere creativo e costruttivo molto importante. Non è buona di per se stessa, ma se esercitata opportunamente è un’occasione per il territorio.
Ricordo che alcuni anni fa, in un dibattito che organizzammo in Val Rendena, Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera, non di certo uno che ci va leggero parlando di autonomia, disse che il problema centrale della questione è che l’autonomia andrebbe concessa in maniera differenziata, perché la capacità di fare da sé attraverso l’autonomia è una caratteristica appartenente ad un tessuto culturale prima che istituzionale, e non si può improvvisare. Secondo Stella, se la Lombardia ci dimostrasse un giorno di essere capace di gestire efficacemente una determinata competenza, allora potremmo lasciarle un grado di autonomia in quella precisa materia. Purtroppo, non troveremo mai un governo centrale realmente disponibile a concedere una geometria variabile. Gian Antonio Stella passò poi a polemizzare sui vari scandali dell’autonomia e, per carità, di scandali in Trentino se ne sono visti, e non dobbiamo avere paura di parlarne; dopodichè, non credo che un progetto di comunità vada valutato secondo il singolo scandalo. Uno studente che viene beccato impreparato non va bocciato. Io credo che l’autonomia trentina abbia dimostrato il suo potenziale, ben al di sopra di ogni scandalo.
Un altro dato importante di quell’incontro con Stella, che ci può aiutare a rispondere alla domanda, fu il silenzio tombale della sala. In tal senso, mi viene in mente una citazione: «il benessere, da solo, non crea identità». Forse, gli anni di benessere ci hanno allontanati dalla sana passione civile che ci permetteva di comprendere il valore della possibilità di incidere il proprio destino. Finché le cose vanno bene, siamo tutti pronti a delegare e felici di raccogliere i frutti dello sforzo altrui. Io credo che siamo ancora in tempo ad imparare nuovamente come curare la nostra autonomia, ma forse ci siamo storditi nel continuare a credere che l’autonomia sia un fenomeno eterno, e abbiamo perso una parte fondamentale della nostra identità. La sovrapposizione dell’essere trentini e dell’essere autonomi non è affatto da dare per scontata.
Giuseppe Ferrandi
Quando Mentana intervenne, in molti urlarono allo scandalo, chiedendo alle istituzioni perché si fosse finanziato quell’incontro, secondo me pure di cattivo gusto, con i soldi della Provincia Autonoma. Ma il problema non è tanto chi invitare, è che in questo genere di confronti, se notate, non esiste mai un contraddittorio. Nel momento in cui un’importante personaggio che può condizionare fortemente l’opinione pubblica è presente in Trentino, e si sa che sorgeranno critiche nei confronti dell’autonomia, bisogna garantire la presenza di una risposta forte. Al tempo, gli spettatori di Mentana non reagirono perché i moderatori della conferenza non ebbero né il tempo né l’occasione di controbattere raccontando la nostra storia e cogliendo la realtà del Trentino con dati, numeri e fatti alla mano. Tuttavia, spesso e volentieri noi trentini, quando si parla di autonomia, manteniamo rassegnati un atteggiamento esclusivamente difensivo. In altre parole, reagiamo agli attacchi, e quando la reazione è avvenuta l’avversario ha già deciso su quale terreno portare il discorso. Questo è un enorme problema di egemonia: non abbiamo la forza politica, istituzionale, culturale per imporre al nostro Paese una tribuna nella quale discutere seriamente dell’autonomia, del decentramento dei poteri, dell’importanza dei territori, facendo risaltare come molti processi siano meglio governati se il momento decisionale è più vicino al cittadino.
A me sembra purtroppo che la lezione dataci da Mentana non sia stata interiorizzata, perché tuttora il Trentino viene preso a legnate nei salotti televisivi. Leggendo gli atti delle commissioni parlamentari di Roma ci possiamo facilmente rendere conto di come i trentini siano considerati alla stregua di piccoli bambini speciali. Ci narrano come dei soggetti totalmente autoreferenziali, serviti e riveriti sotto una grande campana di vetro, e questo ci impedisce di dialogare con l’esterno, per spiegare tutta la bontà della nostra esperienza. La riflessione sull’autonomia non è pertanto dominata dalle nostre elaborazioni, ma è dettata dai livelli degli attacchi che di volta in volta subiamo. Stiamo attenti, perché il tasso di autonomismo all’interno dei partiti politici nazionali è bassissimo, anche in quelle formazioni che si fregiano di essere portatrici di chissà quale pluralismo nella società odierna. E ricordiamo che, nonostante la Costituzione italiana garantisca certi equilibri, la cultura politica del Paese è marcatamente ministeriale e centralistica.
Io spero che una discussione autentica sul regionalismo differenziato, che prenda vita a partire dal protagonismo dei territori, possa risultare utile non tanto per difendere la nostra autonomia, ma per regalare una boccata di ossigeno al Paese e all’Unione Europea, perché le istituzioni europee si dimostrano spesso molto più centralistiche dei governi dei singoli Stati membri. Quando invitiamo un grande opinionista in Trentino, dobbiamo metterci nella condizione di evidenziare tutti i risultati che dimostrano il buon funzionamento della nostra autonomia. Molte volte non siamo in grado di farlo: ci mettiamo a balbettare rispetto a quali siano i costi della nostra autonomia, ignorando totalmente la sterminata serie di competenze che possediamo e sfruttiamo efficacemente in confronto alle altre autonomie regionali italiane. Questo è un problema di educazione civica, di educazione democratica, di partecipazione politica. Abbiamo dunque bisogno di accompagnare nuovamente il concetto di autonomia con un vocabolario quotidiano che sappia ridare dignità e passione al nostro territorio: l’autonomia non è un complicato tecnicismo, non è il palazzo della Provincia di Piazza Dante, ma è la nostra costituzione materiale e territoriale.
Zeus Fiorese
Approfondiamo il tema riguardante il privilegio. Negli ultimi anni, l’autonomia è stata percepita come un privilegio ingiustificato non solo dai nostri connazionali, ma anche dagli stessi trentini. Si dice spesso che la società italiana sia molto cambiata da quando la Costituzione è stata scritta e l’autonomia è stata introdotta, e forse per un giovane nato mezzo secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale, che nemmeno ha visto la caduta del Muro di Berlino, è difficile riconoscersi negli stessi valori, negli stessi schemi, nelle stesse necessità di un tempo. Qual è lo stato di salute dell’autonomia di oggi? Davvero è diventata solamente un vantaggio economico, oppure c’è ancora dell’altro? Se ritenete che vi sia tutt’oggi qualcosa di speciale nell’autonomia, cosa si può fare per permettere ai giovani di comprenderne l’importanza, e affrontare di petto la sterilità dell’attuale dibattito pubblico?
Marco Odorizzi
Io credo che l’autonomia abbia un senso, e che la chiave di volta per far innamorare le persone dell’autonomia sia l’essere sinceri riguardo all’autonomia. L’idea di autonomia sgorga essenzialmente dalla responsabilità. Qualche anno fa, un ragazzo poco più grande di me, che nemmeno conoscevo, mi chiese se avremmo potuto incontrarci in un bar, per parlare di Alcide Degasperi. Io accettai e andai lì, e lui subito cominciò a manifestarmi tutta la sua passione, ma anche delle profonde preoccupazioni: non si capacitava di quanto poco i trentini conoscessero la storia del Trentino e la visione di Degasperi, e desiderava trovare un modo di raccontarle. Inizialmente ritenni piuttosto strano quel giovane sconosciuto, e però poi capii quell’apprensione: da alcuni mesi era stato eletto consigliere comunale del suo paese d’origine, nelle Valli Giudicarie, e il toccar con mano l’assunzione di responsabilità nei confronti della sua comunità aveva originato quel desiderio di comprendere le ragioni e le radici del Trentino. Nel momento in cui la persona si addossa il fardello della responsabilità nei confronti dell’altro, il concetto di autonomia inizia ad acquistar gusto, e si rende conto che la storia non è solo uno svago per persone noiose, che cercare di capire i perché e i per come è un’esigenza, e non un gioco.
Una lezione che Degasperi ci diede, forse involontariamente, è quella che ci raccontò in un articolo del 1934, parlando di come il suo maestro, Celestino Endrici, lo educò alla responsabilità. Endrici era allora un’assistente spirituale per gli studenti universitari cattolici, e sarebbe poi diventato vescovo. Alla vigilia di un importante congresso degli studenti, Degasperi voleva chieder lui consiglio, in quanto avrebbe dovuto tenere una cruciale relazione. Con la duplice volontà di far bella figura e di acquistar fama di giovanotto saputo, prese i propri foglietti e si recò da Endrici. Il padre prese quei testi, diede loro una lunga occhiata, e poi disse: «l’impostazione è buona, per il resto ti ascolterò attentamente e, se sarà il caso, interverrò». Degasperi rimase colpito: il suo precettore non aveva operato come colui che sfrutta il suo pupillo per sentirsi superiore, perché non si era permesso di indicargli precisamente cosa fare, costringendolo a seguire dei rigidi precetti. Dopo aver esaminato con dovizia il suo elaborato, prendendolo dunque sul serio, Endrici aveva invece indicato al giovane di dire ciò che meglio credeva, perché la responsabilità era sua, e anzi si sarebbe preso la briga di intervenire se il giorno successivo avesse eventualmente ascoltato delle sciocchezze. La responsabilità è personale, si deve agire con la propria testa; dopodiché, il maestro ascolta, non ignora, e se necessario interviene.
Quella di Endrici è una meravigliosa lezione di stile educativo e di cultura della responsabilità. Cosa ne possiamo trarre noi, uomini e donne del ventunesimo secolo? Non sempre noi siamo così bravi nel prenderci la responsabilità dei rischi che potremmo correre. Come possiamo ambire a formare in noi delle idee forti se abbiamo paura di pensarle? Riferiamoci anche al mondo giovanile: se vogliamo creare cultura dell’autonomia, dobbiamo lasciare tela da tessere, spazio, campo ai giovani; non lo dovremmo fare per disinteresse, ma perché la responsabilità verso l’autonomia bisogna crescerla, e per far ciò dobbiamo prenderci il rischio di fornire alla gioventù la libertà di sbagliare. Questa è una delle mancanze che per molto tempo abbiamo avuto, e da cui dobbiamo ripartire. Mi rendo conto di star volando molto in alto, però tutto sommato penso che ognuno di noi possa riportarlo per terra e capire che se non tocchiamo palla nella vita delle nostre comunità, allora sì che l’autonomia è un privilegio, una comodità, un sistema fortunato. E tuttavia, io ancora mi auguro e credo che possa essere qualcosa di molto diverso.
Giuseppe Ferrandi
È innegabile che la percezione della nostra autonomia sia legata all’idea di privilegio, perché per percepirla nel concreto basta constatare la differenza qualitativa tra il nostro territorio e le zone limitrofe. Se questo fosse l’unico problema sarebbe irrimediabile, perché dovremmo provare a peggiorare per assomigliare maggiormente a chi ci circonda. L’approccio di cui Marco ci parlava, quello di Endrici e poi di Degasperi, un modo di fare sobrio, che possa cercare di ispirarsi anche a delle soluzioni provenienti dal basso, è legato alla parola “responsabilità“. Se noi vogliamo superare la rappresentazione dell’autonomia come privilegio non è sufficiente negarla, ma dobbiamo sostituirla con l’autonomia della responsabilità. L’autonomia del privilegio è l’autonomia di chi è consapevole di poter meglio agire con delle risorse e delle strumentazioni che possono fare la differenza, mentre l’autonomia della responsabilità è l’utilizzare al meglio le risorse e le strumentazioni disponibili, mettendosi continuamente in gioco. Nulla è definitivo, e in altri termini non esiste alcun DNA trentino che ci renda a priori autonomi. Vi sono delle condizioni politiche, istituzionali, culturali che non possiamo smettere di valorizzare, pena il rimanere svuotati, nella nostra autonomia, di ogni significato.
Piero Calamandrei, grandissimo costituzionalista, in un discorso all’Umanitaria di Milano del 1955, consigliò ai giovani studenti universitari e delle scuole medie superiori di ricordarsi sempre che la Costituzione è una semplice carta. Se noi non sosteniamo la carta, la lasciamo cadere per terra: pertanto, la Costituzione ha bisogno di essere continuamente vissuta. In egual modo, noi abbiamo bisogno di identificarci non più nell’autonomia dei rubinetti aperti, ma nell’autonomia della responsabilità. Per qualche motivo però non sembriamo poter riuscire nell’intento, e allora mi viene da credere che forse il nostro, più che essere un Trentino privilegiato, è un Trentino stanco, omologato a messaggi e a pensieri unici, assolutamente uniformi, che vanno verso una direzione opposta a quella della cultura democratica, la quale invece produce autonomia.
In tal senso, se noi vogliamo cercare delle risposte vere e non retoriche ai nostri interrogativi sull’autonomia, impedire l’isolamento del Trentino è fondamentale. Essere convinti di poter difendere l’autonomia barricandosi è un errore pericolosissimo, potenzialmente fatale. Oggi i trentini sembrano essere affetti dalla “sindrome del villaggio gallico“: siamo sicuri di poter resistere all’Impero romano grazie ai poteri della pozione magica di un druido, come facevano Asterix e Obelix nel loro fumetto, quando nella realtà storica i Romani sterminarono i Galli. Dobbiamo allora smettere di credere di vivere in un villaggio gallico, visto che non possediamo alcuna pozione magica, e cominciare invece a costruire relazioni, rapporti, alleanze che ci permettano di mantenere le nostre peculiarità e portare al di fuori del Trentino ciò che di buono la nostra esperienza ha prodotto. Personalmente sono fiducioso, perché a differenza della nostra generazione, i giovani d’oggi hanno le categorie, le modalità d’essere e le competenze per riuscirci con successo.