Un doloroso divorzio: la Brexit dopo la sentenza della Corte Suprema
Il divorzio non è mai una strada semplice da seguire. La procedura di recesso dall’UE, disciplinata dall’art. 50 del TUE (Trattato sull’Unione Europea), è stata per la prima volta innescata dalla Gran Bretagna – Paese da sempre poco incline a “cedere” parte della propria sovranità. Ma chi si sarebbe aspettato un addio così tormentato e tortuoso?
Sia chiaro, c’era da aspettarsi che non sarebbe stato tutto rose e fiori: le premesse che hanno portato al fatidico “Yes” al referendum su Brexit promosso da David Cameron nel 2016 non erano le migliori. E dopo un governo May disastroso e un non meno deludente governo Johnson, è chiaro a tutti che fondare consultazioni di importanza vitale – come quella sul recesso dai Trattati europei – su retoriche populiste, spicce e all’insegna di slogan più o meno ingannevoli non è una mossa astuta.
Dopo tre anni di trattative e tensioni politiche, sembra che si sia ancora a un punto morto e la Gran Bretagna stia attraversando il periodo di crisi politica e democratica più grave di sempre, che farebbe addirittura pensare a un mutamento dell’ordinamento costituzionale britannico.
Boris Johnson, fervente “brexiter”, ha basato la sua politica e il suo governo su un’idea di hard Brexit: il 31 ottobre il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea, con o senza un accordo. Peccato che a sbarrare la strada del Primo Ministro vi sia il Parlamento. Proprio quest’ultimo ha votato una legge (il Benn Act) che impedisce al Primo Ministro di concludere la Brexit senza un accordo. Perciò, a settembre Johnson ha consigliato alla Regina Elisabetta II di sospendere il Parlamento fino al 14 ottobre, giusto tre giorni prima del vertice UK-UE in cui si dovrebbero definire i termini del divorzio.
Per convenzione costituzionale britannica, la Regina non può che accogliere un consiglio del suo Primo Ministro. Infatti, nel sistema costituzionale britannico, è vero che il capo dello stato è la Regina, ma lei governa attraverso un suo “consigliere di fiducia” – alias il Primo Ministro – che è membro del “Privy council” – il Consiglio Privato di sua Maestà. È prassi costituzionale consolidata, a partire dalla caduta del regime di Cromwell, che la Regina si affidi totalmente al suo consigliere di fiducia, dovendo, perciò, dar seguito alle proposte di quest’ultimo. Il diritto costituzionale britannico insegna anche che le prerogative regie rimaste sono pochissime ed esistono in via puramente teorica: tutto ciò che viene deciso dal Governo per essere attuato necessita il consenso del parlamento (principio della sovranità del parlamento). La sospensione del parlamento è tra poche le prerogative regie rimaste. Ma quella “consigliata” alla Regina da Johnson è la più lunga di sempre e avrebbe permesso al Primo Ministro di agire indisturbato senza un controllo da parte del Parlamento, cui spetta la sovranità.
Questa scelta, malvista dalle opposizioni, ha suscitato enorme clamore e ha portato a contestazioni sulla sua legittimità, poiché secondo alcuni si sarebbe trattato di un attacco alla democrazia. Due sono state le Corti ad occuparsi del caso: la Scottish Appeals Court e l’High Court of England and Wales. La prima delle due ha dichiarato l’illegittimità della decisione del Primo Ministro; la seconda si è dichiarata non competente a decidere il caso, perché trattasi di una “royal prerogative” il cui contenuto è essenzialmente politico, non giuridico – e dunque non sindacabile dal giudice. Contro le due pronunce è stato presentato ricorso innanzi alla Corte Suprema del Regno Unito, che il 24 Settembre ha dichiarato la competenza dei giudici a giudicare la decisione del primo ministro in quanto “non si sarebbe deciso sui motivi alla base della decisione, ma sui suoi effetti”. Nel merito, la Corte Suprema ha stabilito che la sospensione aveva l’effetto di “frustrare o impedire, senza una giustificazione ragionevole, il potere del parlamento di svolgere le proprie funzioni costituzionali quale organo legislativo e di controllo sull’esecutivo”. Per queste ragioni, la decisione di Johnson è stata ritenuta nulla e priva di effetto, con la conseguenza che “è come se il Parlamento non fosse mai stato sospeso”. Tuttavia, la Corte non ha ritenuto di avere basi sufficienti per decidere anche in merito al prospettato “inganno” perpetrato da Johnson per indurre la Regina ad acconsentire alla sospensione. In altri termini, Johnson non può essere accusato di aver “frodato” sua Maestà.
In seguito alla declaratoria di nullità della decisione dell’esecutivo di sospendere il Parlamento, Sir Bercow – lo speaker della Camera dei Comuni da noi incontrato al Festival dell’Economia 2019 – ha convocato i parlamentari mercoledì 25 settembre.
Numerosi parlamentari, tra cui anche esponenti della maggioranza, hanno chiesto a Johnson di dimettersi – come la prassi costituzionale vorrebbe e come “sarebbe opportuno che facesse un uomo con ancora un briciolo di decenza”. Ciononostante, Johnson – che nel frattempo si trovava a New York per la settantaquattresima Assemblea Generale delle Nazioni Unite – ha affermato di non volersi assolutamente dimettere.
Ma allora quali sono i possibili scenari?
Non è facile dire cosa accadrà. L’unica certezza è che il Parlamento non vuole elezioni anticipate, o almeno non finché Johnson non abbia chiesto una dilazione dei termini per uscire dall’UE.
La situazione è complessa: da un lato, il Primo Ministro britannico continua a sottolineare che il 31 ottobre il Regno Unito sarà fuori dall’UE definitivamente, ma dall’altro il Benn Act lo obbliga a chiedere all’UE altro tempo per poter concludere un accordo ed evitare il tanto temuto “no-deal scenario” e dover ricorrere alla “Operation Yellowhammer” – ossia, il piano di misure governative di sostegno da attuare in caso di mancato accordo. Eppure, Johnson potrebbe mandare sì una lettera per chiedere un’estensione dei tempi di recesso all’UE, ma allo stesso tempo mandare una seconda lettera in cui spiega che il governo non ha intenzione di trattare ancora – anche se questo vorrebbe dire risponderne giudizialmente in patria per violazione della sovrana volontà parlamentare.
Esistono, però, altre due possibilità: la prima consiste nel ricorrere ad un altro strumento costituzionale, seppure arcaico, a disposizione dell’esecutivo e cioè “l’Ordine del Consiglio” (Order of Council). Si tratta di un tipo di decreto governativo che non richiede la consultazione con la Regina e che consentirebbe a Johnson di agire senza dover ricorrere a incerte prerogative regie. Sennonché, i costituzionalisti britannici sottolineano che anche questo strumento è suscettibile di essere censurato dalla Corte Suprema, in quanto violerebbe il principio della sovranità parlamentare. L’altro possibile scenario è quello di far ricorso al “Contingencies Act”, emanato nel 2004 dal governo laburista. In virtù di questa legge, il governo può esercitare poteri eccezionali per far fronte a situazioni emergenziali in cui versa il Paese. Il problema è che la stessa nozione di “emergenza” viene puntualmente definita e sarebbe un’indebita manipolazione del precetto farvi rientrare la Brexit.
Peraltro, se Johnson, infine, decidesse di attenersi al Benn Act richiedendo una dilazione dei termini per la Brexit e contrattando un nuovo accordo, resterebbe un’altra questione insoluta e problematica: i dissidi all’interno del Parlamento britannico. Infatti, tra le opposizioni – guidate dal laburista Jeremy Corbyn – non c’è comunione di intenti e approvare un nuovo accordo sembra un’impresa eroica. Se, invece, Johnson si dimettesse si aprirebbe la strada per un governo di scopo. In questo possibile scenario, il nuovo capo politico sarebbe proprio il leader delle opposizioni, Corbyn. Quest’ipotesi si presenta come un’arma a doppio taglio: da un lato, Johnson potrebbe presentarsi all’opinione pubblica, in vista di nuove elezioni, come un “martire” della Brexit; dall’altro si lascerebbe spazio a Corbyn e, di conseguenza, il tempo ai cittadini di familiarizzare con un nuovo governo laburista. Sennonché, il leader laburista ha già fatto un passo indietro aprendo alla possibilità di trovare qualcuno più neutrale rispetto a lui che riuscirebbe a ottenere maggiori consensi in Parlamento.
La Gran Bretagna versa in una crisi democratica e costituzionale di gravità sproporzionata e forse equiparabile a quella scatenante la Gloriosa Rivoluzione. È un momento storico-politico delicato per la più antica democrazia occidentale che potrebbe tradursi in un momento di transizione verso un nuovo modello costituzionale. Tutti sono in attesa di scoprire cosa accadrà: ne va del nuovo assetto geo-politico europeo.