Consumismo e moda: tra tutela ambientale e sfruttamento dei lavoratori
Gli aspetti da tenere sott’occhio quando si parla di ecosostenibilità e tutela dell’ambiente sono molti. Non immaginiamo neanche quanto grande possa essere il nostro impatto su questo pianeta che ci ha offerto e continua (per ora) ad offrirci condizioni favorevoli per la nostra esistenza. Tutto ciò che noi facciamo, dalla più banale delle cose, ha un impatto più o meno elevato sul pianeta, non solo in termini di emissioni di gas serra. Tutto ciò, specie adesso, fa sì che si inizi a parlare seriamente di tutela ambientale. Non è sufficiente, purtroppo, qualche sciopero o manifestazione con cui scuotere gli animi e far pressione sui politici; non sono sufficienti vuote e astratte dichiarazioni di intenti; servono i fatti. E non si tratta solo di una questione politica, di riforme e leggi volte a favorire la tutela ambientale e ridurre le emissioni; noi stessi dobbiamo cambiare le nostre abitudini di vita, ed anche radicalmente, pure laddove non immagineremmo vi possa essere necessità.
A tal proposito è indispensabile pensare al nostro abbigliamento. Forse non sempre consideriamo che anche l’industria tessile e della moda è un’immensa fonte di inquinamento, o se lo facciamo magari ne sottovalutiamo l’incisività in termini di ecosostenibilità.
Si parla, in particolare, di “fast fashion” (moda veloce). Questo termine, coniato negli anni ’90, indica la prassi – sempre più diffusa – di produrre vestiti economici in tempi rapidissimi assecondando i ritmi frenetici delle tendenze della moda. Da qui l’enorme impatto su tre fronti essenziali: emissioni di gas serra, produzione di rifiuti, sfruttamento dei lavoratori. Si stima che nel 2014 il cittadino medio possedeva il 60% di abiti in più rispetto al 2000. Il quadro è il seguente: si comprano più vestiti e più spesso, ma li si utilizza per molto meno tempo e li si getta molto più facilmente; il tutto per restare sempre trendy.
Il consumismo sfrenato turba, stravolge e ridefinisce la nostra società. Da un punto di vista sociologico, esso appiattisce la moltitudine: a tutti piacciono le medesime cose, e ciò causa una gara a ottenere tutti gli stessi prodotti, poiché vogliamo sempre conformarci alle tendenze e le rincorriamo come forsennati. Ciò che in altri contesti potrebbe anche essere connotato di significato positivo (il fare gruppo), diventa inevitabilmente un difetto, un errore (l’omologazione e l’annichilimento della personalità). Perdiamo la nostra identità e stigmatizziamo chi decide di “uscire dagli schemi”. Accanto ai risvolti sociologici, vi sono gli effetti (nefasti) di questo modello economico sull’ambiente. Il consumismo è, forse, il principale nemico della tutela ambientale: se si producono sempre nuovi beni, al di là dei costi della nuova produzione e dell’inquinamento derivante dai processi produttivi, bisogna considerare che ciò che si possedeva prima diventa un surplus, un qualcosa di non più necessario e quindi uno scarto. Diventa un rifiuto. Ma il rifiuto in questione non è tale perché vecchio, inutilizzabile, rotto o, in breve, perché è giunto al termine della propria vita utile, ma – al contrario – solo perché non più “alla moda”.
Parlare di moda ecosostenibile ed etica allora acquista, in questo contesto, un significato profondo per chiunque abbia a cuore la tutela dell’ambiente e – correlativamente – le condizioni di lavoro di operai manifatturieri. Questo tipo di moda si basa su alcuni principi fondamentali e imprescindibili. Anzitutto, si guarda alle condizioni lavorative. Come accennato prima, infatti, con la fast fashion si tende ad abbassare i prezzi dei prodotti mediante la drastica riduzione dei costi di produzione. Il modo più semplice per far ciò è impiegare manodopera di paesi economicamente meno sviluppati, in modo da ridurre al minimo (spesso, a dire il vero, al di sotto del minimo sindacale) i salari. Il tutto accompagnato da scarsissime tutele sul luogo di lavoro e ciò solo per il soddisfacimento dei ricchi (o più ricchi) e mai sazi consumatori. La slow fashion (moda lenta) – cioè, appunto, la moda ecosostenibile – mira anche a garantire salari più elevati e condizioni lavorative almeno dignitose.
Un altro punto chiave è l’utilizzo di materie riciclate e la riduzione al minimo degli scarti. Sempre in tema di scelta delle materie da impiegare, altri due sono gli aspetti rilevanti. Il primo riguarda la tutela degli animali: si punta, cioè, a non utilizzare materie di derivazione animale (pellicce, cuoio, pelle). Il secondo concerne la scelta di stoffe ecologiche. In merito occorre fornire qualche dato.
La maggior parte degli indumenti che usiamo sono di cotone e/o fibre sintetiche, ma proprio questi materiali hanno un enorme impatto ambientale. Infatti, sebbene le piantagioni di cotone occupino solo il 2,4% della superficie agricola mondiale, in esse viene impiegato il 10% di tutti i prodotti chimici agricoli e il 25% di pesticidi; il tutto al netto delle considerazioni in tema di consumo di acqua (molto elevato). I tessuti sintetici, come il nylon o il poliestere, non sono da meno. Quest’ultimo, in particolare, produce ossido di azoto – un gas a effetto serra 300 volte più potente del biossido di carbonio. Il lavaggio in lavatrice, inoltre, tanto di nylon che di poliestere comporta la rottura di queste fibre tessili; ciò, a sua volta, causa il riversamento di micro-plastiche nei sistemi idrici, da dove raggiungono le nostre acque.
Per tali ragioni, la slow fashion tende piuttosto a far uso di altre materie, la cui produzione impatta in misura (spesso notevolmente) inferiore sull’ambiente. Stoffe come canapa, seta e lino sono tra le predilette nel settore della eco-moda perché sono biodegradabili, sono materie prime naturali che non necessitano l’uso di sostanze tossiche durante l’estrazione e non contengono OGM. Quotati sono anche materiali come il bambù e il Lyocell (o tencel): quest’ultimo materiale, scoperto di recente, si ottiene dagli alberi di eucalipto, richiede una quantità d’acqua 10-20 volte inferiore alla produzione del cotone ed è biodegradabile al 100%.
La moda ecosostenibile ed etica, tuttavia, spesso è più costosa e inevitabilmente viene surclassata dalla fast fashion. Inoltre, prestare attenzione alle stoffe vuol dire non solo selezionarle tra quelle meno inquinanti, ma anche produrle nel pieno rispetto del ciclo naturale e biologico – che non segue certo i ritmi della moda. Perciò, la slow fashion mal si concilia con la produzione e il consumismo di massa: risulta molto più complesso riuscire a soddisfare i clienti, i cui gusti sono terribilmente mutevoli. Ciononostante, la complessità del reale è irriducibile a forme di polarismo estremo: in altre parole, non è tutto o bianco o nero e bisogna guardare con estremo interesse e compiacimento a quelle forme di moda etica e sostenibile che vanno sempre più diffondendosi, soprattutto a livello locale. Sempre più, infatti, sorgono piccoli negozi e boutique che decidono di attenersi ai principi della slow fashion. In Italia, ad esempio, molti (forse inaspettatamente) sono i progetti avviati in tale ambito. Uno dei più interessanti si chiama “Quid” ed è stato avviato da Anna Fiscale.
Quid è un’impresa sociale che offre lavoro a persone vulnerabili, soprattutto donne che hanno subito violenze, che sono state oggetto di traffico di esseri umani, che hanno disabilità, che hanno affrontato un percorso di lotta all’alcolismo o alla tossicodipendenza, o ancora migranti ed ex-detenute. Insomma Quid rappresenta per molte l’inizio di una nuova vita e di un percorso di (ri-)socializzazione e realizzazione di sé, il tutto all’insegna della valorizzazione delle stoffe naturali e/o riciclate.
Le iniziative in tal senso sono, però, molteplici e non sempre è semplice stare dietro a tutte le più interessanti realtà in questo settore, posto che si tratta pur sempre (ancora) di piccole attività che non godono di molta risonanza. Per questo, da salutare di buon grado è il progetto de ilvestitoverde.com: trattasi di “un grande contenitore di brand ecosostenibili ed etici per uomini, donne e bambini”, che offre un elenco dei marchi italiani di moda vegana, biologica, sostenibile ed artigianale. In questo modo si incoraggia una responsabilizzazione del cliente medio, che viene incentivato a comprare abiti da negozi rispettosi dell’ambiente, dei lavoratori e dei consumatori.
Legislazione, politica ed incentivi sono indispensabili per offrire gli strumenti necessari al rispetto dell’ambiente, ma da soli non sono sufficienti: questi strumenti vanno usati! Il tutto, in altre parole, passa per un mutamento radicale delle nostre abitudini, che a sua volta dipende da una presa di coscienza generale di quanto l’uomo possa essere pregiudizievole per la natura. Una volta informati di ciò, tocca a noi cambiare e per una volta scegliere non la strada più comoda, rapida ed economica. Per una volta, tocca farci un esame di coscienza e considerare che quel vestito che tanto ci piace potrebbe avere dietro una storia di sfruttamento dei lavoratori, di processi di lavorazione incompatibili con una corretta tutela dell’ecosistema, un consumo di acqua eccessivo e che tutto sommato non ci è indispensabile averlo. Magari anche il mercatino dell’usato non è poi così tanto male come credevamo, magari lì possiamo trovare proprio il vestito che tanto ci piaceva o di cui non riuscivamo proprio a fare a meno. Magari essere alla moda non significa necessariamente “accanito inseguimento di tendenze mutevoli ed effimere”. Magari la vera moda sta nel sostenere iniziative commerciali innovative con finalità anche di supporto a programmi sociali ed ecologici a respiro più ampio.