I nuovi “Rosso Malpelo”: l’evoluzione del caporalato dall’Ottocento ad oggi
Caporalato. Per cominciare ad inquadrare il fenomeno potremo parlare della celebre novella “Rosso Malpelo” di Verga, che racconta le condizioni estreme dei lavoratori in Sicilia nelle miniere di fine Ottocento, delineando un sistema di soprusi sistematici, paghe misere e lavoro minorile. Questo è il caporalato in Italia, che è sopravvissuto a tutto il Novecento e che continua ad essere una tematica di bruciante attualità.
Il fenomeno del caporalato rappresenta un’emergenza nazionale che ci sembra lontana anni luce dalla nostra realtà quotidiana, ma in che realtà toglie all’economia legale, secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI, i 14 e i 17,5 miliardi di euro di fatturato annuo e una forza lavoro di 400 mila braccianti. Gli epicentri a rischio caporalato censiti in Italia sono 72 di cui- per sfatare il luogo comune secondo cui il fenomeno sarebbe localizzato principalmente nel meridione, più di metà nel Centro-Nord. Si tratta di un numero in crescita negli ultimi anni- rispetto ai 26 del 2014, si è passati per le aree centro-settentrionali a 39. Al Sud e Isole, invece, sono 33.
Le diverse forme di coltivazioni presenti sul territorio italiano favoriscono, inoltre, un sotto-fenomeno che è quello della cosiddetta transumanza bracciantile: una sorta di migrazione interna ai confini nazionali che va a seguire i cambiamenti stagionali, muovendosi con ciclicità, che fa pensare ad una sorta di macro-organizzazione che gestisce l’intera rete italiana. L’organizzazione stessa dei caporali favorisce questa tesi: una struttura piramidale composta da una fitta rete di capi, caporali e sotto-caporali. spesso in contatto tra loro da regione a regione. I pomodori, l’insalata fresca e la frutta che mangiamo sono il prodotto di una sistematica attività criminale che ruota attorno all’agricoltura italiana.
Come è stato possibile? Ci sono delle differenze sostanziali tra il caporalato del passato e quello “globalizzato” dei giorni nostri. Quest’ultimo si è adeguato e adattato ad alcuni radicali processi sociali in atto, in particolare l’erompere dei flussi migratori, e ha prodotto in molti casi una degenerazione dello sfruttamento in schiavismo. Non si possono non considerare le conseguenze che si hanno se intrecciamo il fenomeno del caporalato con quello dell’intenso fenomeno migratorio, specificando in partenza che il fenomeno non colpisce solo i migranti africani, ma anche quelli provenienti dall’est Europa e dall’India.
C’è infatti una profonda differenza tra i “Malpelo” di oggi e quelli di ieri. Un tempo i lavoratori condividevano con il caporale il medesimo orizzonte sociale e culturale, la medesima lingua, le medesime contrade. Pur schierati su versanti contrapposti, appartenevano allo stesso paese, o comunque alla stessa provincia, alla stessa regione. Venivano così a stabilirsi con il caporale, e quindi con il proprietario terriero alle sue spalle, dei rapporti di forza codificati.
Oggi accade qualcosa di profondamente diverso. I braccianti stranieri, soprattutto quando stagionali, percepiscono le nostre campagne come una “terra di nessuno” con cui non hanno niente a che spartire: una terra di cui non condividono la lingua, non conoscono le leggi scritte e quelle non scritte. Anche quando si insediano nelle borgate e nei casolari intorno ai paesi, non c’è alcuna forma di integrazione con il loro tessuto urbano e sociale: è proprio questa estraniazione a generare la profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo.
Negli ultimi vent’anni il nuovo caporalato è stato oltremodo favorito dalla legislazione in materia di immigrazione. La legge Bossi-Fini è stata spesso un potente alleato dei caporali, rendendo i lavoratori (specie se sprovvisti di un permesso di soggiorno) particolarmente ricattabili dai propri sfruttatori. Tantissimi lavoratori sono stati infatti denunciati come “irregolari”, dopo essere stati sfruttati, dai loro stessi caporali. Tantissimi altri si sono affidati ai “signori della regolarizzazione”, che hanno offerto loro un nuovo lavoro che, in realtà, rimaneva il medesimo. Quando i braccianti abitano in casolari isolati o in tendopoli auto-costruite lontane dai centri abitati, finiscono col diventare invisibili- una condizione che alimenta la loro vulnerabilità.
È alla luce di tutto ciò che vanno valutate le nuove misure varate nel settembre del 2011 (introduzione del reato di caporalato) e nel luglio del 2012 (concessione del permesso di soggiorno ai lavoratori che denunciano i propri sfruttatori). Tali misure sono di enorme importanza. Per la prima volta in Italia viene formulato giuridicamente il concetto di grave sfruttamento lavorativo: qualcosa cioè che, anche qualora non giunga alle forme estreme di riduzione in schiavitù, è comunque molto più grave del semplice “lavoro nero” o della sola evasione contributiva. E per la prima volta viene offerta una via d’uscita a tutti quei lavoratori ricattati dalla condizione di clandestinità. Tali norme possono divenire davvero efficaci, tuttavia, solo se la cappa di vulnerabilità e invisibilità che circonda le vittime di questo sistema verrà rotta anche sul piano culturale, sociale, economico, sindacale.