Anche i supereroi prendono l’ascensore: il volto umano della fatica

Stefano Gregoretti racconta che da ragazzino, incantato dalle imprese al limite del possibile di Marco Olmo, decise di sostituire il poster di Sabrina Salerno con il suo. Questo repentino cambiamento nella sua cameretta fu d’ispirazione e preludio a mirabolanti avventure ai quattro angoli del globo. Soprattutto, fu il primo segno con cui si manifestava l’inclinazione di Stefano: esplorare luoghi dove nessun altro ha mai messo piede, ascoltare le voci di quei territori vergini e poi, una volta tornato, raccontare le storie trasportate dal vento del deserto e dei ghiacciai, affinché nulla vada perduto.

Al Festival dello Sport l’atleta del poster e il ragazzino che voleva imitarlo si sono incontrati di persona- l’uno in carne ed ossa ma comunque evanescente, perché Marco Olmo, per tutti gli appassionati di ultratrail, è ormai una figura mitologica, l’altro diventato uomo e con un palmarès di tutto rispetto. I due condividono una passione, quella per la corsa in condizioni estreme, ma nel corso della loro carriera l’hanno declinata in modi completamente diversi, perché ciascuno ha il proprio stile, il proprio ritmo, il proprio passo e la corsa insegna a trovarli. Nonostante le differenti interpretazioni è sempre tanta la fatica, benefica, che scava nelle ossa e nell’anima insegnando l’arte del possibile.

Marco Olmo, nato ad Alba nel 1948, è alto e magrissimo. Ricorda uno di quei rari alberi che si incontrano sul ciglio di certe strade africane, tutti protesi verso il sole. Non è difficile immaginarlo mentre attraversa i deserti, spingendo oltre il limite la sua figura longilinea bruciata dalla calura e dalla velocità.  A vederlo sembra che le infinite distese di sabbia, suo luogo d’elezione, l’abbiano plasmato persino nel corpo.

La sua passione per la corsa nasce relativamente tardi, a ventisette anni, quando arriva penultimo alla gara del paese e decide che non può finire così. Inizia ad allenarsi ogni giorno, con la costanza e la caparbietà dei piemontesi. I primi piazzamenti alla Marathon des Sables, una gara di 240 km nel Sahara marocchino, suggellano l’inizio di una nuova era. A 58 anni suonati, l’operaio di Robilante su cui pochi avrebbero scommesso si consacra campione del mondo, vincendo l’Ultra Trail du Mont Blanc. Il riscatto è compiuto e il bruciore per le risa dei compaesani dopo l’insuccesso di trentuno anni prima è ormai un ricordo lontano: Olmo, finalmente, corre solo per sé. Ogni gara è una nuova vita e il deserto, ”il più bello e il più triste paesaggio del mondo”, non è mai uguale a se stesso. Forse è proprio questa pericolosa mutevolezza a piacere tanto al numero uno degli ultrarunners.

Nel deserto, aggiunge Stefano Gregoretti, i nemici stanno a volto scoperto: sono il caldo, la polvere, la fatica e la sete. E lo stesso si può dire per i ghiacciai: durante una spedizione nelle lande inesplorate dell’Artico, si sa di doversi guardare dalla minaccia degli orsi polari, unici abitanti di quei luoghi desolati. Mentre nella vita di tutti i giorni, sebbene siamo tutti consapevoli di doverci difendere, non sappiamo da chi né da che cosa e così ci troviamo invischiati in una preoccupazione permanente che ci annichilisce.

Il più noto esploratore italiano, quindi, nelle sue esplorazioni ricerca l’autenticità del rischio e insegue la dimensione più vera dell’umanità. È negli incontri, più ancora che nel percorso, che Gregoretti trova il senso del viaggio. Riannodando il filo dei ricordi, racconta di aver conosciuto, in Patagonia, un uomo che si faceva chiamare Mr. Jimenez e viveva con i suoi cavalli in una casupola sulle sponde di un lago. Alla domanda più scontata, “Quanti anni ha?”, questo inconsapevole eremita scosse la testa. Non lo sapeva. Fu una grande lezione sul tempo, che ha un peso specifico molto diverso a seconda dei luoghi e, in fondo, non è che una nostra invenzione. La vita di Mr. Jimenez, senza orologi né calendari deputati a tagliarla chirurgicamente in ore, minuti e secondi, è migliore o peggiore della nostra? Stefano Gregoretti, da quel giorno, continua a chiederselo e ad attraversare le zone più inospitali del pianeta alla ricerca di una risposta.

A differenza di Marco Olmo, che ama la solitudine e la sceglie, il quarantaquattrenne di Rimini  viaggia sempre in coppia per avere qualcuno con cui condividere le sue emozioni. “A cosa serve vedere un tramonto meraviglioso nella steppa africana e non avere nessuno a cui comunicare la propria gioia? E’ come innamorarsi, ricambiati, di una bella donna: bisogna correre a dirlo a qualcuno!”. Le sue spedizioni sono precedute da una meticolosa organizzazione, perché il Caso è sempre in agguato e bisogna cercare di limitarne il più possibile il margine d’azione. Alla necessità ancestrale di correre, poi, si accompagna quella del reportage. Sul suo blog c’è un video girato tra i ghiacciai, con la voce fuori campo del compagno di avventura Mike Horn, che è un vero e capolavoro: esorta tutti a cogliere l’attimo propizio, il kairòs dei Greci, per sentirsi vivi proprio in questo momento, qui e ora, “living life to the fullest”.

Conoscere un paese calpestando la sua terra con il peso del corpo rende consapevoli che ogni passo è insieme scoperta, superamento e abbandono. Si passa, si vede, subito dopo si perde l’immagine a cui ci si stava per abituare. Non appena la vista e le gambe hanno preso confidenza con i luoghi, ecco profilarsi una nuova vegetazione, un’altra inclinazione dei raggi solari, la strada che declina o si impenna. Ogni falcata è diversa dalle altre, e quindi unica e preziosa. Rendendosene conto, si ridà valore al tempo e allo spazio.

Per Gregoretti, l’obiettivo principale è sempre lo stesso: fare ritorno, dimostrando a se stessi di aver rispettato l’impegno di correre senza sconti. Una volta a casa, ci si può concedere senza rimorsi i piccoli lussi tanto agognati durante il viaggio: un buon calice di prosecco, l’automobile, l’ascensore… La privazione amplifica la felicità che si prova nel ritrovarsi, dopo un lungo viaggio, al punto di partenza, uguali eppure cambiati. Vengono in mente, luminose, le parole del poeta Costantino Kavafis: “Carico di saggezza e di esperienza/avrai capito un’Itaca cos’è”.

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