Cina e Hong Kong: in breve, cosa è successo e come il mondo ha reagito
Le proteste a Hong Kong continuano: anche questo weekend infatti, nonostante i divieti, migliaia di manifestanti sono scesi in piazza e hanno affrontato le forze dell’ordine.
La situazione prosegue ormai da mesi, aggravandosi sempre di più e sommando violenza a violenza. Intanto, l’economia di Hong Kong va in recessione e la rabbia dei residenti cresce, mentre da entrambi i fronti sembra non esserci spazio né per il dialogo né per la resa.
Racconta Agnes Chow, studentessa e icona della rivolta, di come il movimento da non violento stia diventando sempre meno pacifico per una semplice questione di auto-difesa: “Non si tratta di essere violenti, si tratta di difenderci dalla violenza. La violenza di una polizia che non è più sotto controllo, che non fa più il suo lavoro, (…) quello di mantenere l’ordine pubblico proteggendo i cittadini e rispettando i loro diritti. Ora ci picchia, ci arresta, ci tortura. E ci spara addosso.”
Per cercare di capire le proteste, bisogna partire dalla storia. Hong Kong è un’ex colonia inglese che nel 1997 entrò a far parte della Cina in qualità di regione amministrativa speciale, avendo quindi diritto a una propria forma di autonomia economia e politica. Stando agli accordi, questo regime durerà fino al 2047, anno in cui la regione sarà interamente sotto il governo cinese; come però sostengono i manifestanti, la Cina si sta già inserendo nella politica e nell’economia di Hong Kong oltre ogni misura, controllando la loro democrazia. Nonostante alle elezioni siano liberi di partecipare numerosi partiti, infatti, il Capo dell’esecutivo può essere scelto solo da chi compone il Comitato elettorale, che rappresenta una minoranza della popolazione che è scelta a sua volta tramite un meccanismo controllato dal governo cinese.
Le prime vere proteste iniziarono nel 2014 con la cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”, che deve il suo nome dagli oggetti utilizzati dai manifestanti per proteggersi dalle forze dell’ordine. Si trattava per lo più di proteste pacifiche per chiedere maggiore autonomia nella regione, libertà democratiche e le dimissioni del governatore Leung Chun-ying. In seguito, i rapporti tra la regione e il governo centrale continuarono ad essere tesi, fino allo scoppio di nuove manifestazioni lo scorso aprile: in questo caso, la protesta nacque da una legge sull’estradizione che avrebbe consentito di processare in Cina gli accusati di crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio. L’emendamento fu visto come un invasione nel sistema giuridico di Hong Kong, un nuovo strumento a favore della causa cinese contro gli oppositori; da qui le prime manifestazioni e i primi scontri con la polizia a giugno, quando le forze dell’ordine utilizzarono spray urticanti e cannoni ad acqua, ferendo 72 persone.
Da quel momento in poi, con cadenza quasi settimanale, i manifestanti sono scesi in piazza, chiedendo non solo la sospensione dell’emendamento (che nel frattempo è stato ritirato), ma anche un’indagine indipendente sulla polizia, l’amnistia per gli arrestati, il ritiro della definizione delle proteste come “rivolte” e, in generale, la tutela della democrazia.
A differenza delle proteste passate, Agnes Chow spiega che a guidare i manifestanti oggi c’è più rabbia e disperazione: “La violenza di certi giovani nasce anche da questo, dalla paura, dal terrore di un futuro che si annuncia sempre più vicino, orribile e inevitabile”
Mentre le proteste proseguono, il resto del mondo è diviso tra il sostegno ai manifestanti, il sostegno al governo cinese e un’indifferenza che non è data da una mancanza di sensibilità, ma da un tentativo un po’ impacciato di essere neutrali. D’altra parte, chi fino ad adesso si è schierato a favore delle proteste non ha certo ottenuto il beneplacito cinese.
Tra chi ha sorpreso meno con la sua scelta c’è stata sicuramente la Apple, che ha rimosso l’applicazione Hkmap dal proprio store poiché i manifestanti la usavano per comunicare gli spostamenti delle forze dell’ordine. Benché la decisione sia stata vista da alcuni come una presa di posizione politica, la compagnia della mela ha giustificato la scelta in quanto l’app sembrava mettere a rischio poliziotti, attaccati quando si trovavano isolati, e i residenti in aree dove non si trovava la polizia. Allo stesso tempo però, la Apple ha sviluppato il nuovo aggiornamento iOS 13.11, eliminando l’emoji della bandiera di Taiwan per gli abitanti di Hong Kong.
Ha sicuramente colpito di più la storia di Chung Ng Wai, giocatore del popolare videogioco Hearthstone che, dopo una partita, ha dichiarato in un’intervista il suo sostegno per la causa di Hong Kong ed è stato per questo bandito dalle competizioni per un anno dalla stessa casa produttrice del gioco, la Blizzard. La compagnia non solo lo ha rimosso dai Grandmasters, ma ha anche affermato che il giocatore non potrà ricevere nessun premio per la seconda stagione del torneo, giustificando la propria scelta in quanto Chung avrebbe violato il regolamento, che proibisce atti offensivi verso una parte del pubblico o dannosi all’immagine della casa videoludica. In seguito, molti utenti contrari alla scelta hanno voluto protestare eliminando in massa i propri account, notando però che Blizzard aveva reso particolarmente difficile- quando non impossibile- cancellarsi dal gioco- cosa, che naturalmente, ha attirato ulteriori critiche.
La vera bufera mediatica però è stata quella che ha coinvolto l’NBA: tutto è nato da un tweet del general manager degli Houston Rockets, Daryl Morey, che ha espresso solidarietà ai protestanti di Hong Kong. Al messaggio sono seguite denunce e rappresaglie, per cui gli sponsor cinesi si sono fatti da parte e la tv nazionale cinese ha cancellato la trasmissione delle partite. Il potere della Cina sul mondo del basket americano è più grande di quanto si possa pensare: non solo il basket è uno degli sport tra i più popolari in Cina con milioni di giocatori e tifosi, ma nella squadra dei Rockets ha anche militato per nove anni Yao Ming, considerato il giocatore di basket cinese più forte di sempre e star della NBA negli anni 2000, nonché attuale presidente della federazione cinese del basket. I numerosissimi fan dei Rockets in Cina hanno dimostrato quindi il loro disappunto per l’affermazione di Morey, che nel frattempo ha cancellato il tweet e si è scusato, dicendo che non voleva offendere nessuno. Contemporaneamente si sono scusati anche i Rockets e la NBA, che hanno sottolineato come le parole di Morey non rappresentino né la squadra né la lega. Tutto ciò però non è stato sufficiente, dato che comunque sponsor e tv hanno voltato loro le spalle: per prima si è staccata dai Rockets la produttrice di scarpe mondiale Li Ning, poi la Shangai Pudong Development Bank e la Chinese Basketball Association; infine, la Tencent Holdings ha sospeso la trasmissione delle partite della squadra. D’altra parte, se le pubbliche scuse in Cina non hanno avuto successo, nel resto del mondo hanno suscitato principalmente indignazione e sono state viste come un resa della libertà di espressione di fronte al denaro.
Chi invece non ha avuto paura di dire la sua ed è stato applaudito per questo è il cartoon satirico South Park: nell’episodio “Band in China” ha ironizzato sulla stretta censura di Pechino, che a sua volta ha risposto alla critica censurando l’episodio. I creatori della serie hanno quindi deciso di scusarsi così:
“SCUSE UFFICIALI ALLA CINA DA PARTE DI TREY PARKER E MATT STONE.
Come la NBA, anche noi accogliamo i censori cinesi nelle nostre case e nei nostri cuori. Anche noi amiamo i soldi molto più di quanto amiamo la libertà e la democrazia. (…) Guardate il nostro 300esimo episodio questo mercoledì alle 10! Lunga vita al Partito Comunista Cinese! E che il raccolto di sorgo possa essere abbondante! Siamo di nuovo amici adesso, Cina?”