Confini di mare, confini di terra
Gli studenti che affollano l’aula Andreatta, al secondo piano di Sociologia, hanno il privilegio di non sapere che cosa sia un confine. Sono i figli e le figlie dell’Europa unita, nati dopo quell’incredibile 1989 che segnò la fine della cortina di ferro, abituati a volare da un capo all’altro del Vecchio Continente per motivi di studio, amore o avventura. Eppure, se sono così numerosi, significa che la storia che vogliamo raccontare non è ancora finita – si sa, nessuna storia finisce finché c’è qualcuno disposto ad ascoltarla. Dietro a questa in-conclusione però non si cela alcun mistero e nemmeno una punta di curiosità, ma soltanto l’urgenza di riflettere sul perché, nel 2019, al mondo esistano ancora settantasette muri di cemento e filo spinato.
In questo momento storico il confine per eccellenza non è fatto né di mattoni né di ringhiere: è il mare. Chiara e Noemi, attiviste di Mediterranea, illustrano le tappe che hanno trasformato uno spazio aperto, di contaminazione e scambio commerciale e culturale, nell’abisso in cui ai margini della “fortezza Europa” si consumano inenarrabili tragedie.
Il 3 ottobre 2013 rappresenta una data spartiacque: poco lontano dall’Isola dei Conigli, a Lampedusa, un’imbarcazione libica si rovescia. Perdono la vita circa trecentosettanta persone, in gran parte di origine eritrea. È una strage senza precedenti nel XXI secolo. Per scongiurare il verificarsi di altri drammi, prende avvio l’operazione Mare nostrum della Marina militare italiana, che nei dodici mesi a seguire salverà la vita a oltre 160 mila migranti, intervenendo anche a ridosso delle coste libiche. Mare nostrum viene sospesa nell’ottobre 2014 e sostituita da Triton, guidata dall’agenzia europea Frontex. Le navi d’ora in poi non potranno spingersi a più di trenta miglia dalle coste italiane, perché l’obiettivo non è più il salvataggio di vite umane in mare ma, piuttosto, la difesa dei confini. Le navi mercantili rimangono le sole a soccorrere i migranti in pericolo, in ossequio all’eterna legge del mare.
La notte del 18 aprile 2015, nel Canale di Sicilia, un peschereccio egiziano sparisce tra le onde, trascinando con sé più di mille passeggeri. Sono soprattutto uomini tra i 13 e i 25 anni, partiti da Zwara, vicino a Tripoli, poche ore prima. Tra loro c’è anche il ragazzino maliano con la pagella cucita nella tasca della giacca, scoperta durante l’autopsia dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo e diventata l’emblema di una tragedia che ha fatto il giro del mondo. Di fronte a questo naufragio, il più grave nel Mediterraneo dal dopoguerra, le ONG decidono di colmare il vuoto lasciato dalle Istituzioni. Ma dopo pochi mesi le organizzazioni attivatesi vengono additate come “taxi del mare” e accusate di essere in combutta con gli scafisti. Nel 2017 viene emanato il Codice di condotta per le ONG impegnate nel soccorso dei migranti in mare, promosso dall’allora inquilino del Viminale, Marco Minniti. I tredici punti in cui si articola il documento impongono agli operatori umanitari obblighi ritenuti inaccettabili e umilianti, come quello di ricevere a bordo delle navi funzionari di polizia giudiziaria. In mezzo al mare si crea così un muro invisibile e invalicabile.
Mediterranea saving humans è una piattaforma della società civile che entra nel Mediterraneo centrale proprio mentre molte ONG, criminalizzate dalla retorica politica e ostacolate nel loro lavoro, sono costrette ad abbandonarlo loro malgrado. E’ operativa dall’ottobre 2018, quando intraprende un’azione di monitoraggio nel Mediterraneo centrale. Dispone di una nave mercantile, la Mare Jonio, e di una barca a vela per attività di supporto, la Alex. Entrambe sono state acquistate tramite crowdfunding e permettono agli attivisti di salvare vite e manifestare la loro disobbedienza morale nei confronti del Memorandum d’intesa tra l’Italia e la Libia, paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Giorgio, operatore del Centro Astalli di Trento, suggerisce di ricordare anche questi nostri crimini in occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio; invita inoltre a chiedersi quale identità vogliamo difendere al prezzo di tante vite spezzate. A ben vedere si tratta forse di un’identità intimamente fascista, che non ha ancora fatto i conti con gli orrori commessi nelle colonie italiane in Africa e ha preferito dimenticare, per esempio, l’efferato massacro compiuto dai nostri bisnonni ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937.
Molte le riflessioni portate da questo incontro. Vogliamo davvero chiudere i nostri porti per proteggere una presunta identità che si vergogna di se stessa e rifiuta la memoria storica? Possiamo concepire l’italianità come il termine di un’equazione a cui collegare determinate caratteristiche? Dovremmo provare a dotarci di un’identità più flessibile e inclusiva, in continua evoluzione proprio come il mare che bagna i nostri litorali; solo allora questo, da cimitero qual è diventato, tornerà ad essere un ponte.