“Gaza”: a Tutti nello stesso piatto il docufilm candidato all’Oscar
Il festival cinematografico Tutti nello stesso piatto non si ferma: domenica 17 novembre al teatro Sanbàpolis è stato presentato il docufilm Gaza riguardante la questione palestinese e candidato irlandese agli Oscar come miglior film straniero. Il film mette in luce la situazione della Striscia di Gaza, una fetta di territorio lunga 40 km e larga 11 fra il Mediterraneo e l’Egitto. Dal 2004 su questo territorio vige un blocco imposto dal governo israeliano, che chiude i confini. I due milioni di abitanti di Gaza sono intrappolati all’interno della striscia, senza poter uscire.
I registi Garry Keane e Andrew McConnell ci guidano fra le macerie della striscia, dove anche negli anfratti più scuri splende la speranza di un popolo che non si arrende alle ingiustizie di sessant’anni di occupazione straniera. Il mare diventa un elemento centrale nel lavoro dei due registi, da cui emerge fortemente la connessione che lo lega alla vita dei palestinesi. I bambini sognano di domarlo con i pescherecci seguendo le orme dei nonni, gli adolescenti lo scrutano sognando una vita oltre l’orizzonte, gli adulti ne traggono sollievo dagli orrori del conflitto.
Il mare rappresenta forse l’unica costante nella vita degli abitanti di Gaza. In un’atmosfera di incertezza e distruzione, è un luogo di conforto, dove per qualche istante si può respirare aria di libertà e pace. Una pace che manca da troppo tempo: un sessantenne palestinese è stato testimone di sei guerre e un bambino di sette anni ne ha già vissute due. Gli abitanti della striscia sono sottoposti a un ciclo continuo di conflitti che sembra non finire mai. L’ultima guerra risale al 2014, ma il prossimo conflitto è già alle porte e il popolo palestinese non vede una via d’uscita. Allo stesso tempo, il mare ricorda anche l’impossibilità di attraversare quella vastità d’acqua. Gli abitanti sono intrappolati in una prigione a cielo aperto: chi prova a scappare via mare e viene avvistato oltre le tre miglia dalla riva viene fermato dalle motovedette e arrestato. Questo è un grave problema per i numerosi pescatori della zona, che non potendo spingersi oltre questo limite riescono a pescare poco o niente e non riescono a mantenere le proprie famiglie.
Il documentario è un intreccio di vite che si districano fra i palazzi della città di Gaza. Vite di persone comuni con età diverse, che svolgono mestieri differenti, ma che ogni mattina devono affrontare la stessa cruda realtà. A Gaza ogni giorno può essere l’ultimo, ma nonostante ciò il popolo palestinese cerca di vivere a pieno, senza precludersi momenti di allegria. In alcuni istanti quella narrata dai personaggi sembra quasi una vita normale, fra lezioni di violoncello e partite a carte, fino a quando la loro esistenza non viene nuovamente stravolta dallo sgancio dell’ennesima bomba israeliana che li riporta alla realtà.
“Vogliamo solo vivere”. Questo è il grido di Gaza al mondo. In città manca l’acqua potabile, l’elettricità è disponibile per sole quattro ore al giorno, i medicinali sono reperibili con molta difficoltà. I palestinesi non vogliono più avere paura di morire sotto una bomba in ogni istante della loro vita: non si è mai sicuri di quello che può succedere, in cinque minuti può cambiare tutto. La quotidianità dei palestinesi viene costantemente interrotta da bombardamenti, che devastano edifici e seppelliscono civili . Il confine con Israele è scenario di violenze e tragedie. Molti giovani protestano lungo il confine lanciando pietre e sassi all’esercito israeliano che risponde con il fuoco, ferendo e menomando a vita molti ragazzi. Vengono così rovinati uomini giovani e forti, utili alla comunità: si crea così una paralisi della società intera.
I giovani di Gaza non hanno prospettive: per loro ieri, oggi e domani sono la stessa cosa. Un ventenne palestinese non immagina il suo futuro nel proprio paese ma volge lo sguardo lontano, oltre il mare. Molti ragazzi sperano di ottenere una borsa di studio per studiare all’estero e provare l’ebbrezza di vivere una vita normale.
Alla fine del docufilm è intervenuto Mohammes Hmidat, ingegnere palestinese dirigente di Parc, un’ONG che si occupa di favorire lo sviluppo agricolo e culturale all’interno della striscia di Gaza. L’associazione umanitaria offre aiuti agli agricoltori locali e organizza incontri per le donne con l’intento di renderle consapevoli dei loro diritti e favorire l’emancipazione. Hmidat è ottimista riguardo al futuro e, anche se remota, vede una fine alle sofferenze del proprio popolo: “Se Dio vuole, la speranza e resilienza dei nostri giovani porterà alla conclusione dell’occupazione e del conflitto.“