Una videochiamata per cambiare il mondo: Joshua Wong alla Fondazione Feltrinelli
Sono le 4 del mattino ad Hong Kong. Un ragazzo in vestaglia accende il computer e attende una chiamata Skype dall’Italia. Ha i capelli a spazzola, un accenno di peluria sopra il labbro, il naso a patata, gli occhiali spessi. Sembra il prototipo dello studente cinese, colto e ben educato; invece Joshua Wong è il volto delle proteste di Hong Kong nel mondo. Ha da poco compiuto i 23 anni, eppure è già stato arrestato ben 8 volte, e per 3 volte condannato al carcere – episodi che sembrano scocciarlo soprattutto perché l’hanno costretto a ritardare la laurea- può vantare un documentario a lui dedicato (chiamato eloquentemente Teenager vs Superpower), è stato candidato a Person of the year nel 2014 e preso in considerazione per il Nobel della pace nel 2017. Ma che razza di papabile premio Nobel vanta una fedina penale simile? Nessuno. Joshua è come nessun altro.
Tutto é iniziato quando il governo cinese ha annunciato l’introduzione della cosiddetta Educazione Nazionale nelle scuole di Hong Kong: una classe obbligatoria per estinguere i sentimenti di avversione al Partito Comunista, sedimentati tra i ragazzi. Il timore era che si trattasse in realtà della prima infiltrazione del Partito nel sistema occidentalizzato vigente ad Hong Kong fino a quel momento, in base alla formula “one country two system” introdotta dopo la fine dell’occupazione coloniale britannica nel 1997. Non è raro che l’indottrinamento nei regimi parta dalle scuole: si punta alla formazione di nuove generazioni di cittadini obbedienti e fedeli alla patria. È proprio a questo futuro che Joshua ha voluto ribellarsi, quando a 14 anni ha fondato il movimento Scholarism, riuscendo ad occupare per giorni la sede del Parlamento ed ottenendo un consenso tale da costringere il governo a rinunciare all’Educazione Nazionale.
Questa vittoria ha fatto comprendere agli abitanti di Hong Kong che scendere in piazza per i propri diritti poteva essere una strategia vincente, nonostante la sproporzione di forze rispetto alla superpotenza cinese. Nel 2014 una seconda ondata di manifestazioni ha scosso il paese: la nota rivoluzione degli ombrelli, chiamata così a causa degli ombrelli usati dai manifestanti per proteggersi dai gas lacrimogeni. Sull’onda della campagna per il suffragio universale, Joshua e i ragazzi di Scholarism hanno organizzato un’altra protesta studentesca, sfociata nell’occupazione delle strade di Hong Kong per 79 giorni, ma conclusasi con lo sgombero dei manifestanti e nessun risultato.
“I nostri genitori dicono che se partecipiamo alle manifestazioni ci roviniamo il futuro. Ma quale futuro ci aspetta con l’attuale sistema politico?” – Joshua Wong
Tornando al presente, da cinque mesi Hong Kong è ripiombato nel disordine, e stavolta non è Joshua il volto delle manifestazioni, o almeno non vorrebbe esserlo. É lui stesso a raccontarlo, presso la Fondazione Feltrinelli di Milano. Può farlo, però, solo attraverso uno schermo, dato che gli è stato negato il visto per l’Europa (provvedimento che definisce “peggiore di un’incarcerazione” , poiché gli impedisce di raccontare al mondo la lotta del suo popolo per la democrazia e la libertà). Spiega che gli occidentali non sempre comprendono l’idea di un movimento senza leader. Lui si trova spesso ad interpretare questo ruolo con la stampa, che lo conosce per il suo attivismo passato, ma è proprio grazie ai fatti del 2014 che ad Hong Kong hanno imparato la lezione: individuare un leader significa esporlo alle persecuzioni politiche. A colmare la mancanza di figure di riferimento, inoltre, interviene la tecnologia: app come Telegram hanno canali protetti tramite cui si possono elaborare rapidamente strategie collettive. Anche la fiducia reciproca tra i manifestanti ha un ruolo fondamentale, sicché non c’è bisogno di un leader che comandi e coordini dall’alto se tutti sono in possesso delle stesse informazioni, condividono gli stessi obiettivi e sono solidali e fiduciosi verso i compagni.
Nello specifico, gli obiettivi che tutti i manifestanti condividono sono tre. Quello di breve periodo é già stato raggiunto: a Settembre è stato formalmente ritirato il disegno di legge sull’estradizione verso la Cina, l’atto che aveva inizialmente scatenato le proteste.
L’obiettivo di medio termine è far cessare l’uso della violenza da parte delle forze di polizia. Nei mesi trascorsi, 5000 persone sono state arrestate, 10.000 canister di gas lacrimogeni sono stati riversati sulla folla, così come un numero indefinibile di proiettili di gomma, e si sono verificati degli stupri ai danni delle manifestanti nelle stazioni di polizia, che hanno causato la gravidanza di una ragazza.
Quando Joshua viene incalzato rispetto alle violenze provenienti dalla parte dei manifestanti, risponde senza scomporsi che se queste avvengono é per la diffusa percezione che le proteste pacifiche non siano piú sufficienti. Lo riassume uno slogan, disperato e provocatorio, emerso durante le manifestazioni: “siete stati voi ad insegnarci che le proteste pacifiche sono inutili”. Per spiegarne il senso, invita ad immaginare l’amarezza delle milioni di persone che in passato hanno preso attivamente parte a manifestazioni che non hanno portato ad alcun cambiamento. Immaginate, dice, se piú del 25% degli italiani uscisse per protestare nel centro di Roma: l’amministrazione si piegherebbe immediatamente alle richieste della gente, ma ad Hong Kong no. Qui l’amministrazione non viene eletta dalla gente, viene scelta dal governo Cinese, e a questo risponde. Sottolinea anche come i manifestanti colpevoli di violenze siano sempre stati chiamati a risponderne in giudizio, mentre nessun poliziotto è mai stato indagato, o men che meno punito, per i suoi eccessi e i suoi abusi. Però, e nel dirlo ritrova l’entusiasmo, dalla vittoria schiacciante dei candidati democratici alle elezioni locali della scorsa settimana, la polizia ha immediatamente interrotto i suoi interventi, interpretando il risultato del voto come un appoggio dell’opinione pubblica alla causa dei manifestanti. Il ritiro delle forze di polizia sarebbe senza dubbio la contromisura più efficiente contro l’escalation di violenza, se solo il governo acconsentisse a risolvere la crisi politica nelle sedi istituzionali.
Il terzo obiettivo degli abitanti di Hong Kong, quello di lungo periodo, è ottenere libere elezioni, come promesso nei trattati internazionali del 1997, così da non essere piú costretti ad esprimere le proprie preferenze soltanto tra una rosa di candidati già individuati e pre-confezionati da Pechino.
Le ultime notizie vedono il presidente Trump firmare l’ Hong Kong Human Rights and Democracy Act. Joshua accoglie la notizia con entusiasmo sui social media, ma a chi lo accusa di essere una marionetta in mano al governo americano risponde che non ha mai accettato alcun finanziamento da Stati esteri. É consapevole di venire dipinto dai giornali propagandistici come una spia, un agente della CIA, ma sottolinea che i suoi sforzi nel contesto internazionale sono volti soltanto al coinvolgimento di più attori possibili a supporto di Hong Kong, in modo da creare pressione su Pechino. Ritiene, inoltre, essenziale che i leader mondiali possano fare una scelta informata nella loro collaborazione con le autorità cinesi e si mostra deluso nel leggere che il nostro ministro degli esteri- che lui chiama semplicemente Luigi, forse con tono di rimprovero o più probabilmente in una reminescenza del videogioco- abbia affermato che l’Italia non ha intenzione di interferire in questa situazione, con una tipica mentalità da not in my backyard. Chiede all’Italia una maggiore consapevolezza sul ruolo che può giocare nella violazione dei diritti umani, e chiede anche di fare attenzione: l’esperienza di Hong Kong dovrebbe essere un monito per chi entra in rapporti con la Cina. Essersi appoggiati cosí tanto all’economia cinese rende loro molto più difficile la loro lotta per la libertà e democrazia. There’s no free lunch in the world, avverte.
A chi pensa che sia troppo scettico ribadisce che la Cina è nota per non giocare mai seguendo le regole, vantando innumerevoli precedenti nella violazione dei diritti umani: dalle manifestazioni di Hong Kong a piazza Tienanmen, fino ai campi di detenzione e tortura delle popolazioni di etnia uigura. Ci vuole coraggio a denunciare così apertamente l’azione governo cinese, e ce ne vuole moltissimo a farlo fin da quando si è adolescenti. Joshua ha posto dall’inizio l’asticella molto in alto per chi intendeva unirsi alle manifestazioni, e forse è per questo che oggi vediamo le foto dei ragazzi che settimana dopo settimana sono disposti a rischiare la loro incolumità, la loro carriera, la loro vita e la loro libertà, schierandosi contro un governo che difficilmente dimentica, in nome del loro futuro e di quello delle prossime generazioni. Lui china il capo in segno di gratitudine, ma non cede alle lusinghe: forse, dice, penserete che sia stato impressionante organizzare quella manifestazione a quindici anni, ma si trattava pur sempre di una protesta pacifica. Ció che devono affrontare i quindicenni di adesso é molto peggio. Più di mille studenti sono stati arrestati, e quando scendono in strada devono indossare maschere antigas ed elmetti per evitare le pallottole- a volte quelle di plastica, a volte quelle vere. Sono pronti a morire: questo è Hong Kong nel 2019.
Nel sentirlo parlare, é facile immaginare in che modo Joshua sia riuscito a farsi seguire ed ascoltare da tante persone. Riesce ad animare la folla con ragionamenti lucidi e pungenti, pur lasciando trapelare pochissime emozioni, tra cui la sua inscalfibile determinazione. Vuole infine lasciare un messaggio per i giovani italiani. L’attivismo giovanile non deve emergere solo contro i governi autoritari; i ragazzi di Hong Kong sono la dimostrazione di come i più giovani possano fare la differenza, ma gli studenti possono contribuire al progresso della società in qualsiasi parte del mondo, e non c’è bisogno che attendano di laurearsi, di diventare professionisti o di essere eletti. Chiunque sogni un futuro migliore può agire e mobilitarsi per impedire che le decisioni vengano prese da chi non ha a cuore le generazioni successive. Per questo invita i giovani ad interessarsi alla politica e godere il più possibile degli strumenti della democrazia.
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