“Quanti pesci ci sono nel mare?”
Come molte attività dell’uomo, anche la pesca ha un enorme impatto ambientale. Ancora una volta, il problema non è l’attività di per sé, quanto le modalità attraverso cui la si svolge. Ovviamente, la pesca industriale è quella che cagiona maggiori danni.
Quest’ultima, infatti, negli ultimi anni ha portato ad una diminuzione generale del numero di pesci negli oceani: questo comporta che, nonostante si abbiano tecniche di pesca sempre più innovative e tecnologicamente avanzate, in realtà le quantità di pescato diminuiscono. Basti, a tal proposito, rilevare che il 9 luglio scorso in Europa è scattato il “Fish Dependence Day”: da quel giorno, cioè, le scorte di pesce dell’Europa sono finite, così come la possibilità di approvvigionarsi di pesce senza dover ricorrere alle importazioni. Insomma, da quel giorno il pesce che arriva sulle tavole degli europei non è europeo, ma viene importato.
Da cosa è dipeso tutto ciò?
Negli ultimi anni, abbiamo pescato molto più pesce di quanto le potenzialità riproduttive di mari e oceani non consentissero. Alla pesca sfrenata si aggiungono le tecniche poco sostenibili e rispettose dell’ambiente marino, nonché la pesca di esemplari che ancora non hanno raggiunto l’età fertile impedendone così la riproduzione.
Uno degli effetti peggiori della pesca industriale è il “by-catch”, espressione che potremmo tradurre come “cattura accidentale”. Si tratta della pesca non intenzionale di specie marine durante la cattura dei pesci “target”. Il fenomeno è tutt’altro che da sottovalutare: secondo i dati della FAO, ogni 100 grammi di pescato, 500 grammi corrispondono a catture accidentali. Sempre la FAO ci informa che il 70% delle specie ittiche nei nostri oceani è esaurito o sfruttato; inoltre, l’incremento demografico fa crescere la domanda di pesce, il tutto mentre la produttività degli oceani è in continua diminuzione.
La pesca industriale è sicuramente uno dei principali nemici della salute dei nostri oceani: riprendendo le parole di Wolfram Heise, direttore di un programma di tutela dell’ambiente marino in Cile, “è impossibile produrre pesce in quantità industriale in modo ecosostenibile” – e non è neanche difficile immagine il perchè.
La produzione industriale punta tutto sulla quantità e sul profitto immediato: di più è meglio, perché si soddisfano più persone, si vende di più e, in ultima analisi, si guadagna di più. Le tecniche impiegate sono quelle che consentono di raggiungere questo risultato nel minor tempo possibile e al meglio delle possibilità. Ciononostante, la pesca indiscriminata di specie ittiche è controproducente: essa porta ad un annientamento della popolazione marina, e ad una drastica riduzione del tasso di natalità.
Per di più, i mezzi principalmente utilizzati sono tra quelli che più distruggono l’habitat marino, come ad esempio la pesca a strascico sui fondali – che è, invero, illegale.
Non tutti i danni, però, sono provocati dalla pesca industriale o illegale: anche l’allevamento di pesci (acquacoltura) è tutt’altro che ecosostenibile. I pesci che di solito si allevano, infatti, sono quelli carnivori, il che significa che altri pesci verranno pescati con il solo scopo di nutrire quelli da allevamento – l’ONG Food and Water Watch riporta che per 100 grammi di pesce allevato, ne occorrono 600 di pesce selvatico. Inoltre, intere aree costiere vengono devastate per lasciar spazio agli allevamenti, i quali di per sé sono molto inquinanti a causa dei coloranti, delle scorie e degli antibiotici riversati nelle acque.
Un accenno deve essere fatto anche ad altre due cause, forse non troppo scontate, di deterioramento della salute degli oceani: gli allevamenti di bestiame terrestre e la coltura di piante foraggere. Da queste attività deriva un’enorme quantità di letame, pesticidi, fertilizzanti chimici e acque di scolo che viene rigettata in acqua. Queste sostanze contengono un’elevata quantità di azoto e fosforo, elementi chimici che provocano fenomeni di eutrofizzazione – cioè, l’eccessiva crescita di alghe marine. Una presenza oltre i limiti di alghe nei nostri fondali è nociva, in quanto queste piante marine si decompongono molto facilmente e ciò, a sua volta, comporta un crollo della quantità di ossigeno in certe aree di mare che le rende ostili alla vita; non a caso, esse sono dette “dead zones”.
È, tuttavia, possibile invertire questo trend e far riacquistare salute agli oceani, e non necessariamente passando per l’estrema – ancorché forse auspicabile – soluzione di virare verso un’alimentazione vegetariana o vegana. Sarebbe, per vero, sufficiente convertirsi a un modello di consumo responsabile, valorizzando la pesca sostenibile.
Cos’è la pesca sostenibile?
La pesca sostenibile è rispettosa dell’ambiente marino e attenta alle specie che vengono catturate adeguandosi ad una sorta di principio di distinzione. Il principio sul quale essa si impronta è, anzitutto, la salvaguardia delle risorse – che vuol dire anche garantire la capacità produttiva dei mari. È importante mutare gli strumenti impiegati per la cattura del pesce e bisogna anche cercare di ridurre lo scarto della pesca, che è un beneficio anche per l’economia dei pescatori.
Nel 2017, in UE, è stata riformata la Politica Comune della Pesca e si prevede che in caso di pesca di specie sotto-taglia queste debbano essere sì sbarcate, ma senza poter essere vendute per il consumo umano: in questo modo si incitano i pescatori a prestare attenzione alle specie che si catturano, avendo come target solo quelle specie che hanno già raggiunto l’età riproduttiva. Ciò dovrebbe aiutare a minimizzare l’impatto che la pesca ha sulla popolosità dei mari e la loro capacità produttiva.
In tema di tecnologie e pratiche di pesca sostenibili e funzionali a ridurre la quantità di catture indesiderate, a livello europeo, si è intervenuti con uno specifico progetto: il MINOUW (Minimizing unwanted catches in European fisheries). Esso nasce dalla collaborazione di 15 diversi istituti e organismi scientifici marittimi provenienti da tutta Europa, che si occupano di svolgere ricerche, condividere informazioni e conoscenze, trovare soluzioni e raccomandare nuove policies.
Altri due progetti (SafeNet e Mantis) sono stati introdotti con lo scopo di garantire una gestione dell’ecosistema che serva a preservare gli habitat marini e il corretto funzionamento delle comunità ittiche. Essi sono volti a individuare una rete coerente di Aree Marine Protette (AMP) e così sviluppare politiche di gestione spaziale della pesca, ad esempio disponendo delle chiusure temporanee. Questo dovrebbe aiutare a massimizzare i benefici socioeconomici per i pescatori e rendere più durevoli gli effetti di una pesca sostenibile.
Un ultimo importante contributo a ripristinare la salute dei nostri potrebbe essere un consumo sostenibile. A tal proposito è da segnalare un ultimo progetto: il FishForward, sviluppato dal WWF in 11 Stati Membri dell’UE, che promuove un consumo ecologico, sociale ed economicamente sostenibile.
Insomma, l’impegno da metterci è notevole, ma è necessario sforzarsi per tutelare i nostri mari e loro salute, in un’ottica anche e soprattutto intergenerazionale.