Carlo Ginzburg e il cosmo di uno storico del XXI secolo
di Marco Zanella
Il 6 febbraio, presso la Fondazione Bruno Kessler, in occasione dell’uscita della nuova edizione Adelphi del suo Il formaggio e i vermi lo storico di fama internazionale Carlo Ginzburg parteciperà ad un dialogo pubblico con Lucio Biasiori dell’Università di Padova e Cora Presezzi dell’Università “La Sapienza” sul tema: “Il cosmo di uno storico del XXI secolo”. L’occasione è ghiotta: in primo luogo avremo il privilegio di poter ascoltare le parole di uno dei più rilevanti storici italiani; in secondo luogo potremo provare a comprendere il peso della rivoluzione metodologica portata alla ricerca storica, tra gli altri, proprio da Ginzburg durante gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Nella Prefazione alla prima edizione de Il formaggio e i vermi del 1976, Ginzburg scrive: «in passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto “le gesta dei re”. Oggi, certo, non è più così. […] “Chi costruì la Tebe dalle sette porte?” Chiedeva già il lettore operaio di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori, ma la domanda conserva tutto il suo peso». Il formaggio e i vermi indaga, come reca il sottotitolo dell’opera, il cosmo di un mugnaio del ‘500. Attraverso la ricostruzione dei riferimenti culturali e dei processi di interazione tra cultura egemone e cultura orale nella figura di un mugnaio friulano nato nel 1532, Domenico Scandella detto Menocchio, Ginzburg delinea le coordinate della cultura popolare, dicotomica e reciproca rispetto a quella dotta. Va comunque notato che Menocchio certamente non fu un comune mugnaio: sapeva leggere e scrivere e rivestiva una posizione piuttosto rilevante nel proprio paese. La fortuna dello storico di poter parlare di Menocchio è figlia della sfortuna dello stesso personaggio: nel 1582 egli venne denunciato al Sant’Uffizio con l’accusa di aver pronunciato parole “ereticali e empissime” su Cristo, tentando peraltro di diffondere le sue convinzioni, e nel 1583 fu condannato a morte. Il metodo della ricerca utilizzato da Ginzburg in questo libro è riconducibile a quello che contraddistingue la cosiddetta “microstoria”. Essa concepisce la storia come collegata alla sociologia e all’antropologia, e nella ricostruzione storica pone al centro persone, o eventi, ignorati dalla storiografia classica in favore di elementi macroscopici come, ad esempio, la storia degli Stati. Se oggi si può dare per scontato un approccio simile, non lo stesso si può dire per quanto riguarda gli anni in cui Ginzburg, Levi, Grendi ed altri grandi storici tentarono di allargare, restringendolo, il campo dell’indagine storica. In questo senso, l’esempio de Il formaggio e i vermi è illuminante. Ma come è stato possibile per Ginzburg arrivare a definire cosa fosse appartenente alla cultura popolare, analizzando le carte di un processo del Sant’Uffizio, dove gli Inquisitori ritenevano le parole degli accusati pure sciocchezze? La chiave sta nel metodo utilizzato. Il paradigma indiziario al quale Ginzburg fa riferimento non può essere definito se non come efficace, oltre che suggestivo. Nel suo saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario, Ginzburg delinea la costituzione del paradigma indiziario – venatorio. Per spiegare ciò che significa, riporta una fiaba orientale: «Tre fratelli incontrano un uomo che ha perso un cammello — o, in altre varianti, un cavallo. Senza esitare glielo descrivono: è bianco, cieco da un occhio, ha due otri sulla schiena, uno pieno di vino, l’altro pieno d’olio. Dunque l’hanno visto? No, non l’hanno visto. Allora vengono accusati di furto e sottoposti a giudizio. E, per i fratelli, il trionfo: in un lampo dimostrano come, attraverso indizi minimi, abbiano potuto ricostruire l’aspetto di un animale che non avevano mai avuto sotto gli occhi». Il metodo utilizzato dai tre fratelli è quello che può utilizzare lo storico: da piccole incongruenze, da piccole anomalie, si può accedere a verità profonde altrimenti inattingibili. E così accade in Il formaggio e i vermi: quando Menocchio viene interrogato, più volte cita a memoria passi di libri (di cui fa il nome), oppure riporta la fonte da cui ha tratto certi ragionamenti. Oltre ad emergere subito una certa originalità di pensiero del mugnaio, che nelle parole di Ginzburg «non si limita a pappagallare opinioni altrui», emergono anche varie incongruenze tra la fonte scritta, citata da Menocchio, e ciò che lui crede di ricordare. Ebbene, è in queste incongruenze «che vediamo dunque affiorare, come da una crepa del terreno, uno strato culturale profondo, talmente insolito, da sembrare incomprensibile». È tra le pieghe di queste stesse testimonianze che si nasconde e, infine, emerge la metafora fondamentale della “predicazione” del mugnaio: quella della creazione, da cui proviene anche il titolo del libro, Il formaggio e i vermi, appunto. Stando alla documentazione analizzata da Ginzburg, un certo Giovanni Povoledo ha riportato le seguenti parole del mugnaio friulano, il quale si sarebbe trovato a sostenere quanto segue: «Io gli inteso a dir […] che nel principio questo mondo era niente, et che dall’acqua del mare fu battuto come una spuma, et si coaugulò come un formaggio, dal quale poi nacque gran moltitudine di vermi, et questi vermi diventorono homini, delli quali il più potente et sapiente fu Iddio, al quale gl’altri resero obbedienza».
L’originalità di questa figura ha incoraggiato, nel 2019, la produzione cinematografica della storia di Menocchio. Il regista Alberto Fasulo ha portato in un film il cosmo del mugnaio friulano. Ma perché ancora tutto questo interesse per il libro di Ginzburg? Come indica lo stesso autore i motivi possono essere due: primo, lo stile con cui viene condotta la ricerca attraverso le pagine del libro, ossia accostando parti documentali senza commento a riflessioni e ipotesi. Il secondo motivo è il grande interesse per la materia stessa della vicenda di Menocchio, che non a caso ha recentemente ispirato la produzione di un film che ha deciso di farsene carico. Il fatto che venga pubblicata una nuova edizione del maggiore successo editoriale di Ginzburg in un momento come questo, in cui la microstoria ha lasciato spazio ad altre tendenze storiografiche, la dice lunga sull’importanza di questo libro. A questo punto un quesito si pone: la “storia globale”, ossia la tendenza storiografica che da qualche decina d’anni sembra essere la più diffusa (ma della quale difficilmente è possibile definire i limiti), può fare a meno della “microstoria” e dell’indagine della cultura popolare? A questa domanda le risposte sono state diverse. Lo storico Francesco Benigno ha sostenuto, ad esempio, che «la stessa nozione di cultura popolare, uscita ormai da qualche tempo dall’orizzonte delle scienze sociali, è oggetto di interesse solo per archeologi culturali». Come risponderebbe Ginzburg, di certo questa è una visione a dir poco miope; la storia globale, in qualche misura, è, e sarà, costretta a porsi delle domande in merito alla vastissima documentazione prodotta, ad esempio, dai colonizzatori europei in tutto il mondo, i quali hanno filtrato comportamenti e atteggiamenti dei colonizzati attraverso le proprie categorie, proprio come gli inquisitori avevano lasciato tracce della vita del mugnaio friulano all’interno dei loro carteggi. Fondamentale, a questo proposito, è quindi la lezione offerta dallo studio delle carte dei processi inquisitoriali contenuta nel libro di Ginzburg, il quale analizza i carteggi del processo come se fossero veri e propri contenitori di indizi della dicotomia “cultura dominante – cultura dominata”. È solo attraverso questo tipo di ricerca storica che sarà possibile comprendere appieno ciò che forse, in molti casi, sfugge e che riserva agli studiosi, con la sua fuga, le illusioni tipiche del “positivismo ingenuo”. Un cosa è certa: ad oggi il “cosmo dello storico del XXI secolo” è indubbiamente più ampio di quanto non fosse quarant’anni fa, e potrà offrire nuove suggestioni a chi lo vorrà scoprire.