Cosma Manera e la “Legione Redenta”
Tra le pieghe della storia, lontano dai campi di battaglia e dai tavoli diplomatici, spesso è possibile trovare delle vicende meno note rispetto a quelle riportate sui testi scolastici e da noi studiate, ma non per questo meno interessanti o degne di nota. Inevitabilmente gli anni passano, le memorie si affievoliscono e i protagonisti di tali episodi vengono lasciati cadere nel dimenticatoio.
Quella che vi vorrei proporre è una delle vicende più incredibili nella storia italiana contemporanea, situata a cavallo della Prima guerra mondiale, tra il 1916 e il 1920: sto parlando dell’interminabile epopea di Cosma Manera e della “Legione Redenta”.
Ma di che si tratta esattamente?
La nostra storia prende il via il 28 luglio del 1914, con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia e le seguenti reazioni concatenate che trascinarono l’Europa nell’incubo della Prima guerra mondiale. Allo scoppio della guerra, l’Austria inviò sul fronte orientale (in particolare in Galizia) circa 100.000 soldati appartenenti alle cosiddette terre “irredente”, ovvero quelle terre culturalmente e linguisticamente italiane ma politicamente sottostanti all’egemonia dell’Impero austro-ungarico. I soldati trentini, triestini e giuliani furono volutamente spediti sul fronte orientale a contrastare l’Impero Russo, lontano da casa e dai possibili contrasti tra la loro appartenenza geografica/linguistica e quella politica.
Negli scontri, in migliaia morirono e circa 30.000 furono fatti prigionieri dall’esercito russo. A dispetto del marasma che la guerra aveva creato, già nell’autunno del 1914 lo Zar Nicola II aveva offerto all’allora Presidente del Consiglio italiano, Antonio Salandra, la liberazione e la restituzione di tali prigionieri. Nonostante ciò, la Russia ricevette un imbarazzato rifiuto da parte dell’Italia, poiché essa era ancora un paese neutrale e non aveva ancora formalmente deciso con chi schierarsi.
La vicenda prese una svolta importante con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Triplice Intesa nella primavera del 1915 e soprattutto in seguito alle pressioni della stampa nazionale, in particolare del “Corriere della Sera” e “La Stampa”, i quali influenzarono profondamente l’opinione pubblica e fecero passare la questione in primo piano. Mesi dopo, l’appello delle famiglie e delle associazioni irredentiste venne finalmente raccolto, essendoci anche le condizioni politiche e militari per intraprendere un’operazione di recupero ad una tale distanza (i detenuti erano rinchiusi nel campo di prigionia di Kirsanov, situato a 600 km a sud-est di Mosca).
Nel gennaio del 1916 il governo italiano varò l’avvio della prima missione italiana in Russia, incaricata di organizzare il rimpatrio e il salvataggio degli irredenti. Oltre che per una questione umanitaria, l’Italia intendeva soprattutto ottenere una vittoria mediatica e psicologica sul nemico, l’Austria-Ungheria. L’organizzazione della missione fu affidata al tenente colonnello di Stato Maggiore Achille Bassignano, anche se l’organizzatore, il braccio operativo e il vero e proprio artefice dell’impresa fu Cosma Manera, un abile Capitano dei Carabinieri.
Nel luglio del 1916 Cosma Manera giunse finalmente in Russia ed hanno inizio le operazioni di rimpatrio.
Per raggiungere l’Italia dal campo di prigionia di Kirsanov, senza dover attraversare l’Europa belligerante, Cosma Manera fu costretto a pianificare un viaggio sensazionale, soprattutto se contestualizzato ai mezzi dell’epoca. Infatti, si optò per trasportare su rotaia i prigionieri fino ad Arcangelo (sul Mar Bianco) per poi affrontare il periplo marittimo della penisola scandinava, arrivare in Gran Bretagna dal Mare del Nord e proseguire via terra attraverso la Francia e infine l’Italia. Sorprendentemente, a dispetto dell’estenuante viaggio e delle difficoltà logistiche, la prima missione di salvataggio ebbe successo e automaticamente si crearono i presupposti per replicare la spedizione e portare a termine l’impresa. Infatti, nonostante il rientro trionfale del primo gruppo, nel campo di prigionia di Kirsanov restavano bloccati e rinchiusi ancora migliaia d’italiani d’Austria.
La situazione prese un’inaspettata piega nell’ autunno del 1917, con lo scoppio della rivoluzione bolscevica, la quale complicò enormemente i piani di salvataggio. Il timore era quello che il caos e il disordine che accompagnarono la rivoluzione d’ottobre e la caduta del regime zarista rendessero pericoloso il transito da Mosca verso Arcangelo, punto d’imbarco delle precedenti spedizioni. Cosma Manera decise allora di cambiare i propri piani ed organizzare una missione ai limiti dell’impossibile: si pianificò la rapida mobilitazione di tutti gli irredenti verso est, con l’idea di raggiungere i porti della Siberia orientale (Vladivostok) e in seguito la concessione coloniale italiana di Tientsin, in territorio cinese. L’intenzione era di salpare verso l’Italia, circumnavigando l’Asia per poi passare dal canale di Suez. Oltre alle evidenti difficoltà per via delle siderali distanze che il viaggio doveva coprire, era necessario regolarsi per il trasferimento di circa 2500 uomini, perlopiù disarmati, attraverso 8000 km di territorio ostile, in pieno inverno ed utilizzando l’unica via di comunicazione esistente e praticabile, la Transiberiana.
Incredibilmente, Manera riuscì a realizzare il suo piano e in meno di un mese il campo di Kirsanov fu pressoché svuotato. Gli irredenti, caricati a gruppi di 40/50 persone sui treni disponibili, raggiunsero incolumi Vladivostok e poi la Cina, approdando a Tientsin nella primavera del 1918. In tale situazione, per una minoranza, perlopiù i malati, gli invalidi e i bisognosi di cure, si presentò subito l’opportunità di salpare verso l’Europa, transitando attraverso gli Stati Uniti, approdando prima a San Francisco per poi raggiungere New York via treno, da dove si imbarcheranno nuovamente alla volta di Genova. Ma l’odissea degli irredenti è tutt’altro che terminata e al grosso del contingente rimasto sparpagliato tra la Russia e la Cina, il governo italiano richiede un sacrificio inaspettato: nel luglio del 1918 partì da Napoli, a bordo del piroscafo “Roma“, il Corpo di Spedizione Italiano per l’Estremo Oriente, destinato a partecipare, con il resto dei paesi dell’Intesa, ad operazioni militari contro il regime bolscevico. L’idea era quella di sostenere i fronti della controrivoluzione russa, sia per riaprire un fronte di guerra in chiave anti-germanica, sia per sopprimere sul nascere il pericolo che il contagio sovietico si potesse diffondere in Europa.
In questo quadro, ai circa 1500 irredenti rimasti a Tientsin venne proposto, ma soprattutto imposto, di arruolarsi nel regio esercito italiano. Una novantina di ex prigionieri, provati da anni di guerra e sofferenza, si ribellarono all’idea di imbracciare le armi nuovamente. Quest’ultimi vennero catturati e consegnati alla polizia cinese, per poi finire internati in un campo di concentramento di Pechino. Per chi invece, proprio malgrado, aveva accettato l’arruolamento, Manera formò due battaglioni regolari, denominati “Battaglioni Neri” per il colore delle mostrine militari sulle divise.
L’autunno del 1918 disegnò uno scenario paradossale per i soldati irredenti in estremo oriente. Mentre in Europa la guerra volgeva al termine, coloro che avevano iniziato a combatterla per primi con l’uniforme dell’Austria-Ungheria restarono tra i pochi costretti a continuare le azioni belliche, dall’altra parte del mondo e per un altro esercito, quello italiano.
I battaglioni neri furono impiegati più con funzioni di polizia che come truppe da combattimento, perlopiù lungo gli avamposti della transiberiana, contesi tra rivoluzionari russi e controrivoluzionari bianchi. Ciononostante, il loro cammino fu accompagnato da interminabili sofferenze e continue perdite, dovuto soprattutto al freddo glaciale delle steppe russe e asiatiche.
Il Corpo di Spedizione Italiano in Estremo Oriente venne ufficialmente richiamato in patria nell’ estate del 1919, ma un numero consistente di soldati impiegò mesi prima di riprendere la strada di casa. Nel frattempo, Manera continuò a scovare e recuperare i prigionieri ancora dispersi in Russia. È una missione per la quale si prestò senza sosta, sospinto anche dalle richieste d’aiuto provenienti dalle famiglie d’origine, alla disperata ricerca dei propri cari. Alla fine del 1919 era riuscito a raccogliere altri 2600 irredenti, molti dei quali in precarie condizioni fisiche e morali. Il Capitano dei Carabinieri inquadrò militarmente tale nucleo di soldati, dando vita, come egli stesso la ribattezzò, alla “Legione Redenta”. Il gruppo diventò il punto di riferimento per tutti gli ex prigionieri irredenti ancora sparpagliati in Russia.
La “Legione Redenta” restò operativa fino al 1920, quando la vittoria del bolscevichi sull’ armata bianca e la fine del governo provvisorio instaurato dopo la caduta del regime zarista, convinsero Manera che fosse arrivato il momento di abbandonare definitivamente l’area. Nel giro di alcune settimane, 3 piroscafi carichi d’irredenti salparono da Vladivostok in direzione dell’Italia e intrapresero un nuovo epico viaggio: compirono scali in Cina, attraversarono l’Oceano Indiano, risalirono lo stretto di Suez e arrivarono finalmente a Trieste nell’ aprile del 1920. L’odissea degli irredenti, almeno per la maggior parte di essi, potè dirsi giunta al termine: dopo quasi sei anni trascorsi tra battaglie e prigionia, trovarono famiglie incredule di vederli ancora in vita e un paese frustrato dai rimpianti della cosiddetta “vittoria mutilata”, dove chiunque li accoglie in modo ostile. Da una parte, attirarono il disprezzo delle masse popolari per aver combattuto contro i rivoluzionari bolscevichi, dall’ altra raccolseno l’indifferenza delle istituzioni, impegnate a monitorare l’occupazione di D’Annunzio della città di Fiume, che mette in secondo piano la terza impresa di Cosma Manera.
L’irredentismo fu un problema che assediò il governo Nitti, per cui fu preferibile che la smobilitazione degli irredenti avvenisse in maniera silenziosa ed immediata. Ad essi non venne assegnata nessuna medaglia e soprattutto, nessun sussidio. Roma dimenticò i nuovi italiani di Trento e Trieste, per i quali, a suon di propaganda, nel 1915 era entrata in guerra.