Body Positivity e Body Neutrality: è possibile, nella società dei mass media, amare il proprio corpo?
Nel suo articolo “Fabulously Fat”, pubblicato su Cosmopolitan nel 1980, la giornalista britannica Erin Pizzey si chiede come si sia arrivati ad una società basata sull’equazione donna grassa = donna priva di valore. “Le donne grasse passarono di moda quando fotografi e fashion designer presero i pennelli dalle mani degli artisti”. Pizzey ricorda così come il canone della bellezza sia mutato nel corso della storia. Si appella quindi alle “donne di ogni forma, tipo e taglia”, soggetto dei quadri di Rubens. Da una critica alla società, che incatena le donne a standard di bellezza così costrittivi, la scrittrice passa a un elogio del peso. L’articolo assume quindi la forma di rassegna dei vantaggi dell’essere grassi, impregnandosi di un tono comico. “Ama tutta te stessa – anche se ti richiede uno specchio che vada da parete a parete – e apprezzerai la vita”.
Così Pizzey si fa portavoce della body positivity. Il movimento, basato sull’idea che ogni persona ha il diritto di amare il proprio corpo, affonda le proprie radici nella riforma vittoriana dei costumi. Con la riforma, si voleva porre fine all’uso di corsetti e altri indumenti femminili, tradizionalmente usati per modificare dolorosamente la forma del corpo, ad esempio assottigliando la vita. Il movimento della riforma dei costumi fu il primo ad affrontare il tema della ‘body image’, mettendo sullo stesso piano le donne di ogni taglia. Pur apprezzando il tentativo della Pizzey, è evidente come quella della ‘body positivity’ sia una mentalità del tutto utopica. Il 15 marzo è la giornata nazionale contro i disturbi dell’alimentazione; l’obiettivo della giornata è sensibilizzare sul tema dell’anoressia, della bulimia e di altre malattie legate alla nutrizione. Jameela Jamil, attrice londinese, memore delle proprie battaglie contro l’anoressia, si è fatta portavoce della “body neutrality”. Al contrario della “body positivity”, la “body neutrality” non mira ad un apprezzamento del corpo, ma ad una sua accettazione.
“L’unico problema che ho nei confronti della body positivity è che ci forza ancora a restare intrappolate nell’ossessione del nostro corpo. […] come genere siamo indietro, perché dedichiamo ancora troppo tempo a pensare a come apparire”. Secondo quanto dichiarato da Jamil in un’intervista con il giornale ET Style, mentre gli uomini hanno il tempo di concentrarsi sulla propria carriera, le donne resterebbero ingabbiate nell’ossessione di essere abbastanza carine, belle, magre.
Jameela Jamil ha cominciato la propria carriera di attivista nel 2018, prendendo spunto da un post su Instagram, in cui veniva indicato il peso delle Kardashian. Pur criticando le Kardashian per il loro lavoro di pubblicizzazione di bevande e prodotti per la perdita di peso, Jamil è rimasta indignata dal fatto che il valore di queste donne, che innegabilmente hanno costruito un impero, fosse stato ridotto al loro peso. Così nacque #iweigh.
“Decisi di postare su Instagram quello che io pesavo”, racconta sempre Jamil in un’intervista con Channel 4, “Cioè il fatto che sono indipendente economicamente, che ho una meravigliosa relazione, amici incredibili, un lavoro e che posso ridere ogni giorno”.
Mentre qualche anno fa, per trovarsi di fronte articoli sull’ultima drastica dieta del momento, come mettersi in piedi sulla bilancia ai pasti per smettere di mangiare alla più piccola oscillazione dell’ago, bisognava attivamente andare a comprare una rivista, oggi siamo inconsciamente tartassati da questi standard di bellezza 24 ore su 24. Che si tratti di una pubblicità su internet o di un post consigliato su Instagram, siamo tutti esposti a queste ‘informazioni’ tossiche, bambini compresi. Per andare contro questa ondata di tossicità, dobbiamo lottare per una società meno basata sull’aspetto esteriore e più focalizzata su ciò che è realmente importante. Una società che valuta le donne basandosi solo su quanta carne hanno sul loro corpo e quanto spazio fisico riempiono nel mondo è folle; è folle perché nel frattempo le donne partecipano a curare il cancro, crescono i propri figli, si laureano a pieni voti e fanno cose grandiose nel mondo e non è accettabile che siano ancora ridotte a qualcosa di così insignificante e patetico come l’indicazione di una bilancia.
E che quella della bilancia sia una legge ferrea a cui le donne ancora oggi, nel ventunesimo secolo, debbano sottostare ce lo confermano i numeri. Secondo il Ministero della Salute, l’incidenza dell’anoressia è di almeno 8 nuovi casi per 100mila persone in un anno tra le donne, mentre per gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi. Oltre il 90% dei casi di anoressia interessano le donne, si legge inoltre nello studio condotto dal ministero. Numeri agghiaccianti, che ci dimostrano come la donna debba ancora misurarsi con una società che la considera solo un oggetto. I pericoli dell’oggettificazione femminile ci sono ben noti in Italia, dove nei soli primi dieci mesi del 2019 sono stati registrati 94 femminicidi.
Dunque, in questo scenario così scoraggiante, è possibile per una donna amare il proprio corpo? Se prendiamo in considerazione gli anni ‘90, qualche passo avanti è stato fatto. Trent’anni fa il sex symbol femminile era la scheletrica ed emaciata Kate Moss. Oggi il quadro si è un po’ ridimensionato e, anche grazie al movimento MeToo, sul grande schermo vediamo sempre più donne che stanno mandando in tilt il sistema patriarcale hollywoodiano dall’interno. Basti pensare a Amy Poehler e Tina Fey, o ad Amy Schumer. Anche nella moda il vento è un po’ cambiato: maggiori brand si stanno affrettando a ideare collezioni all’insegna dell’inclusione, per restare al passo coi tempi. Se prendiamo in considerazione il regno della lingerie, ad esempio, Savage x Fenty di Rihanna, puntando sull’inclusione, ha rubato la corona all’intoccabile Victoria’s Secret, che all’alba delle accuse a Harvey Weinstein veniva vista come troppo poco inclusiva. Insomma, per quanto riguarda la rappresentazione nei media, qualche progresso si è visto. È importante però non fermarsi a questi primi passi, perché il cammino è ancora lungo. Ma anche se spesso quello dell’attivismo può sembrarci un cammino inutile e in cui ci ritroviamo da soli, dobbiamo usare la nostra voce per andare controcorrente. Perché “Time is Up”, “il tempo è scaduto”.