Jazz e “Faccetta Nera”: cos’hanno in comune?
Gli anni ’20 sono scivolati via a ritmo di jazz. Erano anni “belli e dannati”: da un lato il veloce arricchimento dell’America, i vestiti corti e luccicanti delle donne ed i fiumi di champagne versati a bordo di limousine affittate per un pomeriggio di festa; dall’altro l’alcolismo, la povertà, le macerie che ancora coprivano i cadaveri prodotti dalla Grande Guerra e un rancore non del tutto sopito, destinato a risvegliarsi. Il jazz è la musica di sottofondo del decennio, così vibrante e viva che contribuirà in maniera decisiva allo sviluppo di tutte le principali correnti musicali del Secolo Breve.
Lo sviluppo del jazz è uno dei tanti frutti della Harlem Renaissance, miracolo di riappropriazione culturale della comunità afro-americana che in questi anni comincia a prendere coscienza del proprio contributo allo sviluppo artistico, filosofico e letterario dell’America. Attraverso questo rinnovato interesse nelle arti e nelle origini della comunità nera nel Nuovo Mondo gli afro-americani cercano di “guarire” dal trauma collettivo della schiavitù e cominciano il percorso che porterà ai movimenti per i diritti civili degli anni ’60 e ’70. Nato dalle canzoni di lavoro delle piantagioni, i primi musicisti jazz suonavano ad orecchio nelle Ragtime Bands che animavano i locali di New Orleans. Nel 1917 venne registrato il primo brano jazz, “Livery Stable Blues” della Original Dixieland Jass Band, composta da cinque musicisti di cui due italo-americani, il direttore Nick La Rocca e il batterista Tony Sbarbaro. Sarà Louis Armstrong a portare il jazz a Chicago, città da cui poi si diffonderà in tutto il mondo.
L’Italia dimostrò fin da subito di amare il nuovo genere arrivato da oltreoceano, già nel 1920 si vendono in Italia i primi dischi jazz. Questa libertà musicale però non dura: nel 1922 comincia il processo di “fascistizzazione” dello Stato e il Duce non ci metterà molto ad etichettare il genere che più di tutti stimola l’improvvisazione e la libertà di espressione come “musica degenerata”. Nonostante ciò il jazz continua a proliferare di nascosto nella penisola, che ospita nel 1935 Louis Armstrong, ribattezzato per l’occasione “Luigi Braccioforte”.
Sia in Italia che in America vediamo, negli anni ’20, un rinnovato interesse nei confronti dell’identità nazionale e culturale: in entrambi in Paesi la musica è usata come strumento di affermazione identitaria, ma con esiti storico-culturali molto diversi. In America si afferma il jazz, che svolge un duplice ruolo di motore culturale e strumento di protesta – ancora oggi “Southern trees bear strange fruit” di Billie Holiday genera controversie – mentre in Italia si arriva alla propagazione dell’ideale di “italiano” e all’estremizzazione del concetto di nazione. Di questo sono esempio “Black Brown and Beige” di Duke Ellington e “Faccetta Nera”. La prima è una sinfonia jazz che ripercorre la storia della comunità afro-americana, suonata per la prima volta alla Carnegie Hall. Duke Ellington introduce il jazz, la storia afro-americana la sua presenza in quanto artista nero in un luogo che in America era tradizionalmente limitato alle élite bianche: il teatro. “Faccetta Nera” invece è una canzone popolare del periodo fascista che ha come soggetto una donna nera, chiamata nelle prime due righe della canzone “schiava fra gli schiavi”. Questa allegra marcetta militare dallo schema rigido cerca di convincere l’”abissina” della canzone dei vantaggi del colonialismo: siamo molto lontani dai sogni di libertà che animavano la comunità nera oltreoceano.
Pochi immaginavano che queste differenze musicali sarebbero presto diventate politiche e che la Guerra che tutti si erano appena lasciati alle spalle sarebbe riemersa.