Qualcuno lo dica: siamo in economia di guerra!
Finito il periodo della fisarmonica mediatica fra chi sosteneva che il Covid-19 fosse poco più che una normale influenza stagionale e chi invece consigliava di attuare misure restrittive come la quarantena domiciliare per mettere in salvo vite umane, ci siamo trovati nel giro di pochi giorni ad avere il nostro sistema sanitario nazionale al collasso e un’economia che chiudeva i battenti a suon di decreti governativi.
Eppure, non è ancora chiaro il messaggio del grave sconvolgimento economico a cui stiamo andando incontro. Tre parole: economia di guerra. O meglio, economia pandemica.
Cos’è: è il crollo verticale e disomogeneo dell’offerta e della domanda del mercato economico concorrenziale, più o meno accentuato nei settori e nelle filiere produttive maggiormente colpite da un arresto improvviso della produzione e della conseguente disoccupazione di lavoratori dipendenti e, nel nostro caso, anche di molti lavoratori autonomi la cui serranda è stata chiusa per legge. Tutto ciò a scopo preventivo per contenere la diffusione del virus che si è sviluppato per prima in Asia e per agevolare il sistema sanitario nell’assistenza e cura degli infetti.
Quanto dovrà durare tutto ciò di preciso non lo sappiamo, ma siamo certi che non potrà protrarsi a lungo per diversi motivi: disoccupazione nel breve e medio periodo insostenibile, conseguente creazione di nuove masse di poveri, minor gettito fiscale per sostenere le spese correnti e straordinarie, deflazione dei prezzi, aumento dell’inflazione monetaria e del debito pubblico.
Ne deriva la necessità fondamentale di predisporre un piano strategico di programmazione economica, un patto di sviluppo economico fra il mondo imprenditoriale e lo Stato, cosa che il nostro Paese per molto tempo non è stato in grado di fare.
Assunto un modello statistico di diffusione epidemica per vero, è necessario adeguare ai tempi epidemici anche il mercato economico, riformandolo temporaneamente. Tradotto, se la pandemia dovesse mantenersi a questo regime per più di un mese, non potremo permetterci di sopravvivere con i bonus forfettari da seicento euro per le partite IVA e modalità di sostegno assistenzialistiche. Tutto ciò senza alcun criterio reddituale di distribuzione (come consiglia giustamente il governatore della Banca d’Italia), dando una mancia “al primo che arriva” con un metodo che si avvicina al famigerato quanto iniquo “click day” tramite portale INPS. A quel punto dovremmo smetterla con gli annunci ipotetici e le misure provvisorie, e dire la verità: va trovata una soluzione che sospenda temporaneamente le regole e i canoni del libero mercato, da una parte e che riesca a finanziare le nuove e massicce emissioni di titoli di Stato, dall’altra.
E qui potrebbero aprirsi numerosi scenari di discussione, litigio politico, sindacale e di categoria professionale; ma non solo, anche di contesa nazionalista in Europa su temi cruciali e da troppo tempo dibattuti e lasciati in sospeso, come gli Eurobond. Ma mentre sappiamo dalle agenzie di stampa e dai principali notiziari di quanto sia aspra e trasparente la contesa fra “falchi e colombe” in Europa (rigoristi contro Stati del Sud), non ci è dato sapere cosa intenda fare il governo italiano qualora la crisi produttiva ed occupazionale dovesse protrarsi per tutto il corso dell’anno, in attesa di una cura polmonare salvifica o del vaccino.
Solitamente nelle economie di guerra o senza regime di libero mercato concorrenziale i classici strumenti economici sono: piano straordinario di assunzione pubblica o regolata dallo Stato, redistribuzione dei redditi, diminuzione dell’orario di lavoro, riconversione della produzione industriale, prezzi di vendita politici. Insomma una situazione non augurabile a nessuno e che si avvicina molto al socialismo reale o al popolarismo del secondo dopoguerra. Eppure è una soluzione cui dovremo andare incontro se vogliamo che la società regga solidalmente l’urto disoccupazionale. Ci possiamo aggiungere, inoltre, altri strumenti tipici della nostra finanza contemporanea: mutui a tassi prossimi allo zero o a fondo perduto garantiti dallo Stato (Cassa Depositi e Prestiti), iniezione di liquidità nel sistema creditizio e imprenditoriale attraverso il Quantitative Easing della BCE, taglio drastico delle inefficienze, taglio temporaneo della spesa pubblica non indispensabile (stipendio dei dirigenti, pensioni sopra una certa soglia netta…etc.) con relativo storno sulle spese sanitarie , sospensione o cancellazione di cartelle fiscali o anticipi di tassazione, soluzione ai contratti di affitto in essere fra privati, accordi per la soppressione dei paradisi fiscali, politica fiscale unica europea, forte contrasto dell’evasione fiscale con macro-sistema di detrazione, tassazione marcatamente più progressiva. Qualche esempio dal settore privato è arrivato, come dall’a.d. di FCA Mike Manley che si è ridotto l’onorario plurimilionario del 50%, o da Rana e Ferrero spa che hanno aumentato lo stipendio dei propri dipendenti.
L’alternativa sarebbe ristretta. In tutte le guerre e pandemie le fonti di finanziamento sono sempre state quattro: le tasse dei cittadini, l’aumento del debito pubblico, le donazioni private, l’inflazione. Siamo già a due su quattro: sicuramente il nostro debito pubblico in seguito ai decreti da cinquanta miliardi stanziati dal governo è aumentato, e forti sono state le donazioni. Avvisaglie deflattive dei prezzi le stiamo ricevendo, quindi una svalutazione della moneta con aumento inflattivo è possibile per tutta l’area euro come è già accaduto con Mario Draghi alla BCE. Manca solo la grande tassazione, una manovra finanziaria che si preannuncia essere silenziosamente una “stangata” di montiana memoria, già avvenuta durante la crisi dei debiti sovrani del 2011. Sarà solo la volontà politica, l’intesa auspicata fra i litigiosi e schizofrenici partiti politici italiani a poter trovare un accordo pianificato di sistema, per intervenire aiutando realmente la nostra popolazione in grave difficoltà, senza ricorrere a tasse patrimoniali indiscriminate e regressive (che colpiscono sempre i soliti noti) o a pericolose estensioni dell’assistenzialismo forfettario senza equità: come finanzieremo i bonus da seicento euro fra qualche mese? Che criterio utilizziamo per distribuirli? Se la soluzione definitiva, come sembra, non sarà europea, con la creazione di un debito comune “federale” finalizzato alla crisi sanitaria, l’unica via che possiamo seguire per vincere questa guerra sotto l’egida della solidarietà ed equità sociale resta un’economia temporanea e di emergenza fortemente diretta dal potere pubblico tesa alla redistribuzione del reddito privato, in accordo con il mondo imprenditoriale. Un tempo l’avrebbero chiamata “New Deal”.
Scelte e soluzioni che solo una classe dirigente, se esiste, potrà decidere di attuare.