Soggetto e carattere. Su quando venne ammainata la bandiera della Ragione
di Chiara Legnaro
“La mente funziona ad incastro,
per capire a fondo il mondo
ogni giorno ti serve l’altro”.
Murubutu, La vita dopo la notte
Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei. Ancora, dimmi quello a cui presti attenzione e ti dirò chi sei. L’antica arte del conoscere sé stessi ha affascinato fin dagli albori quello strano bipede che vaga curioso sulla superficie terrestre, partecipe di un magico rituale che da sempre fa danzare in armonia cielo e terra e con essi tutte le creature. Dall’appartenenza a una tribù all’orgoglio per la propria nazione, dall’aderenza a qualche pratica religiosa a un serrato ateismo: tutto in noi è storia di un’eterna ricerca, è narrazione del viaggio più maestoso che la nostra specie possa compiere. La scoperta di essere umani.
La questione dell’identità è cosa complessa e molti ne converranno a riguardo: più se ne discute, meno sembriamo venirne a capo. Più proviamo a esprimere “chi siamo”, più cogliamo quell’impercettibile scarto tra il nostro inconfessabile sentire e quello che ci raccontiamo, le nostre aspettative. Sempre qualcosa ci sfugge, come se scavare a fondo non fosse mai abbastanza, come se i nostri schemi, i nostri discorsi non fossero mai davvero in grado di cogliere ciò che davvero conta, come se le parole aggirassero a sommi capi quel velo imperscrutabile di mistero.
Qualcuno ogni tanto ci prova a far chiarezza, a mettere un po’ di ordine alla confusione che abbiamo in testa. Di carattere e soggettività ne ha parlato ad esempio Salvatore Natoli, docente di filosofia teoretica all’Università di Milano-Bicocca, con un esemplare intervento al Festival della Filosofia del 2019 a Sassuolo. Avendo molto a cuore il tema del soggetto, il nostro Caronte filosofico ci porta alla scoperta di quel plutonico mondo dell’edificazione della soggettività, centrando la sua riflessione sulla stretta connessione che intreccia le strade della formazione e del carattere.
L’introduzione al suo intervento è breve e ha come compito quello di lasciar scivolare lentamente le coscienze nel flusso dell’ascolto e della parola, invitandole – invitandoci – a far piazza pulita di preconcetti e pregiudizi, lasciandoci meravigliare, stupire – e perché no – interrogare, da questo viaggio nel cuore dell’uomo. È un invito a rimettersi in discussione (d’altronde, non è forse questa la prima sfida filosofica?).
Il disvelamento del carattere
«ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων – ethos anthropoi daimon» – è una massima attribuita ad Eraclito, filosofo ed erudito presocratico del V secolo a.C. Tra le varie traduzioni, una in particolare dà il là alla vera e propria conferenza di Natoli: “il carattere è il demone per l’uomo”, o in altre versioni, “il carattere (o l’indole) determina il destino dell’uomo”. In questo gioco infantile tra formazione e carattere, il nostro filosofo spiega come il rapporto con gli altri, in particolare il triangolo relazionale io-altri-mondo, conduca il carattere al proprio disvelamento.
«Nella relazione» – afferma il filosofo – «il soggetto scopre quello che è». Si scopre, si disvela ma mai del tutto e per intero; «nessuno» – continua – «giunge alla scoperta definitiva delle proprie latenze».
Fedele a una lunga tradizione che da Aristotele passa a Spinoza, Natoli sposa appieno la concezione dell’Essere come potenzialità, esse potentia est. Nella danza creativa il vivente segue il ritmo della biologia, la logica della vita: come uno spettacolo al quale mai si smette di chiedere il bis, ogni volta egli vuole danzare sempre meglio. Come nelle piante, così negli animali, come in grande così in piccolo, anche l’uomo trova la sua vocazione nella spinta all’evoluzione e al perfezionamento della specie. In questo incolmabile scarto tra potenziale e coscienza di sé, lo strano bipede è ignoto a sé stesso e si scopre solo in relazione agli altri. Simile o dissimile, grazie all’altro ha nuovi occhi per guardare al mondo, per guardare a sé stesso.
Paradossalmente, la figura del nemico, a dispetto di quella dell’amico, può essere molto più formativa: «il nemico» – asserisce il filosofo – «è in grado di mettere a nudo quello che l’amico non ha il coraggio di dire». Il nemico è libero di farci un immenso dono: essere parresiastico con noi, ovvero parlarci senza filtri né timori di ferirci: mettere a nudo le nostre ombre, quello che magari nascondiamo pure a noi stessi. Quello di parresia, dal greco “dire la verità”, è un concetto particolarmente caro a Michel Foucault: nelle lezioni filosofiche tenute al College de France nel 1983, egli spiega come: «nella parresia il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco piuttosto della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita o della sicurezza, la critica invece dell’adulazione e il dovere morale invece del proprio tornaconto personale».1 Un immenso grazie quindi al nemico che ha avuto il coraggio di mettere da parte la cortesia di circostanza e ha scelto di essere fieramente coerente a sé stesso.
Scelgo dunque sono (…tenace)
La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno di noi ne raccoglie un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta la verità. (Rumi) Così, semplicemente, conosciamo in parte noi stessi grazie ad altri frammenti di verità: a differenza dello specchio di Dio, il nostro tempo non è però infinito. Il filosofo lo ricorda bene a tutta la piazza di Sassuolo: come esseri mortali nella vita non possiamo realizzare tutte le possibilità. Scegliamo e seguiamo una sola direzione: neanche un battito di ciglia dell’Universo e già non ci siamo più.
Una nota esistenzialista, quella di Natoli. Il richiamo ad Heidegger è magistrale e il filosofo non si stanca di ripeterlo: solo prendendo consapevolezza della certezza della morte siamo in grado di ponderare le nostre scelte per rimanere quanto più possibile fedeli a noi stessi. L’autenticità sconta il pedaggio della mortalità. Tragicomico? A tratti. Una vita degna di essere vissuta – risuona sulla piazza emiliana – è tale solo se accordata al proprio ethos, la buona e spontanea attitudine di una condotta conscia della limitatezza temporale della vita, che sceglie di essere fedele alla propria natura intrinseca rinunciando alla folle aspettativa di dover compiacere tutti. Di che natura si parla? Cosa intende per spontaneità? Trascinata dal flusso del discorso, annoto sul mio quadernino varie domande. Forse, la risposta è proprio quello scarto davanti al quale le parole devono arrestarsi e, semplicemente, fare silenzio.
Nella formazione del proprio e personalissimo carattere, continua Natoli, è richiesta solo dedizione: «qualsiasi azione dell’uomo» – afferma – «esige dedizione». L’atto di fedeltà al proprio carattere non termina mai, è un impegno e allo stesso tempo una sfida che dura tutta la vita. In questo processo emerge l’importanza della filosofia: citando Epicuro, Natoli asserisce come il gioco del filosofare sia adatto tanto ai giovani, chiamati ad imparare, quanto ai vecchi, chiamati a disimparare le abitudini tossiche e i condizionamenti limitanti che hanno incontrato nel corso della vita.
Ad un festival della filosofia, celebrazione delle radici della cultura occidentale ed europea, sembra di percepire una consonanza con pensieri e visioni più orientali. Chissà, forse l’arte di conoscere sé stessi non conosce differenze né di spazio né di tempo. La dedizione di cui parla Natoli ricorda qui l’equivalente della tenacia per il pensiero cinese (in particolare per alcune varianti del sentimento buddhista e taoista). In un interessantissimo libro di Francois Jullien, “Essere o vivere”, il filosofo e sinologo francese compara alcune delle più importanti categorie del pensiero occidentale con altrettante categorie del pensiero cinese. In particolare, in un capitolo apre al confronto tra la “volontà”, figlia occidentale per eccellenza che si è affermata come zoccolo duro di un sistema che ha eretto il soggetto come centro conoscitivo, e la “tenacia”, una virtù propria della visione orientale.
Non è l’obiettivo di questo saggio aprire una digressione su questa comparazione, tantomeno entrare nel merito delle scuole di pensiero dei nostri amici orientali. Semplicemente, mi limito a sottolineare come il concetto di tenacia sposi adeguatamente le necessità del discorso di Natoli. La tenacia, che traduce il termine cinese “qi”, secondo Jullien «è la capacità etica di non cedere al proprio sforzo, nella propria determinazione, a dispetto della resistenza incontrata»; e ancora «non si tratta della capacità eroica di un istante [quale potrebbe essere la nostra volontà], ma della capacità di preservare nella durata, senza lasciarsi scoraggiare». Infine, la tenacia è «la prima virtù, perché risponde all’attenzione che il pensiero cinese riserva a ciò che è corso e continuità, la via, il tao».2
L’architettura della coscienza
Il tempo scorre, la temperatura sale. Nella piazzetta emiliana inizia a prendere forma nella coscienza di tutti un’idea di carattere legata al concetto di stabilitas: ci vuole dedizione e tenacia, per trovare una propria stabilità. Questo Natoli lo sa bene: segue infatti una breve digressione sull’etimologia che lega areté (greco per “virtù”) e ars, arte nel senso più ampio del termine, volta a designare l’immagine della coscienza come un’architettura (parola che si rifà alla stessa radice di “arte” e “virtù”), intesa come equilibrio di forze e di potenze, dove i conflitti interni si dissipano nella stabilità ricercata dal soggetto. Siamo ritornati pienamente in Occidente: la nostra simpatia orientale si fa da parte e lascia che il filosofo prosegua la sua riflessione. Cavalcando l’onda aristotelica e citando in particolare la dottrina del giusto mezzo (Etica Nicomachea, Libro II), il filosofo italiano ribadisce l’importanza di sapersi stabilizzare nelle flusso delle perturbazioni ambientali. In altre parole, un carattere formato è tale in quanto stabile.
Attenzione, però. Non s’intenda la stabilitas come una cristallizzazione o peggio una pietrificazione della propria personalità: «(…) stabilità è anche saper cambiare. Sapersi adeguare senza mai dissolversi nella dipendenza. Quando viene meno questo spirito di adattamento e di accettazione, subentra il delirio di presunzione. Il rischio è di arroccarsi definitivamente in una certa posizione, perdendo così la sana e naturale capacità di mettersi in discussione». Natoli distingue così la stabilitas dalla relativa patologia, la presunzione.
Armonia e l’agire lieto
È sempre più chiaro come il carattere sia frutto di un grosso lavoro e allo stesso tempo il risultato della fitta rete di relazioni che intrecciamo nel corso della nostra vita. «L’uomo, il soggetto, non deve puntare all’autosufficienza» – e qui il pendolo sembra oscillare nuovamente da Ponente a Levante – «ma alla complementarietà. Un carattere armonico si intona alle cose». Le frizioni vengono trasformate in modulazioni: per entrare in sintonia con le perturbazioni dell’ambiente circostante, è necessaria un’intelligenza in grado di lavorare appieno sulle emozioni. Altro che separazione tra affettività e l’intelletto! La bandiera del razionalismo, che per secoli è sventolata libera sulla roccaforte del pensiero occidentale, è ammainata.
Siamo quindi giunti al concetto di “carattere lieto”, ciò che secondo il filosofo vi è di più auspicabile in ogni persona. Egli distingue la naturale e spontanea allegrezza dalla lietezza, che deriva dal godimento della propria autorealizzazione ed è una vera e propria soddisfazione di sé.
«Il carattere lieto» – comanda la voce di Natoli– «non è uno stato d’animo, ma il risultato di una vita vissuta e appagante. Non è un sentimento, ma un’azione». Chi è lieto nell’anima, prosegue il filosofo, si cura e si preoccupa di sollevare chi soffre, si intristisce se non è in grado di portare armonia nel suo ambiente e tra i suoi cari. Egli si riempie donandosi e allietando gli altri.
È una questione di fortezza: questa virtù, secondo il filosofo, si compone di fermezza, l’atto di preservare al meglio la fedeltà al proprio essere e di generosità, l’attitudine ad aiutare gli uomini a unirsi sotto il tetto dell’amicizia, ad entrare in sintonia gli uni con gli altri, in uno stato di comprensione e armonia reciproca.
E il ruolo della formazione? L’educazione, riflesso del più ampio specchio della politica, dovrebbe assecondare questa chiamata, incentivando il singolo a seguire la propria natura intrinseca. Infatti, come aveva precedentemente dichiarato in un’intervista per “il Foglio”, Natoli spiega: «oggi la politica ha avanti a sé un tempo senza fine. Opera nello spazio di un perpetuo transitare. Non può dunque avere un éschaton (attesa messianica), ma mantiene tuttavia il suo télos: non è una meta finale da raggiungere, né un fine estremo da perseguire, bensì è la ragione immanente ad ogni ente perché esso sia “quello che è”, per il suo esistere. Ora, finché uomini ci saranno, compito della politica è e resta quello di garantire la giustizia, moderare i conflitti, mantenere la pace, provvedere al pubblico benessere: infine, permettere a ognuno di perseguire la propria felicità.»3
A questo punto, conviene forse chiedersi se sia davvero questo il contesto socio-culturale migliore in grado di rispondere a queste esigenze o se invece ci stiamo avviando verso una sempre maggiore affermazione del progresso fine a sé stesso, verso il superamento dell’uomo da parte della tecnica. Così la conferenza – e con lei, anche questo articolo – si chiude con una sorta di provocazione, un invito a riflettere sulle condizioni di possibilità della nostra realtà. Stiamo davvero vivendo nel migliore dei mondi possibili? Meglio pensarci dopo pranzo.
Nel frattempo, chi vuol essere lieto sia …
Bibliografia
1. M. FOUCALT, Il governo di sé e degli altri, Corso al College de France 1982-32, Feltrinelli
2. F. JULLIEN, Essere o vivere, Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Milano, Feltrinelli 2016
3. S. NATOLI, Il fine della politica, intervista per “Il Foglio”, 10 Maggio 2019