Libano: genesi di una nazione frammentata
Aveva prestato giuramento solamente in gennaio, per inaugurare un periodo di riforme strutturali, salvare il Libano dalle élite politiche corrotte e dalla profonda crisi economica in cui il “Paese dei cedri” si trova invischiato.
Nella serata di lunedì 10 agosto il governo libanese, attraverso il Primo Ministro Hassan Diab, ha rassegnato le dimissioni. Le prime avvisaglie erano arrivate già nei giorni precedenti, quando 4 membri del governo avevano lasciato il proprio dicastero. Tale decisione arriva in seguito alle violente proteste antigovernative che stanno imperversando a Beirut, rendendo la città un esplosivo teatro di scontri tra la polizia e manifestanti.
La situazione si è velocemente deteriorata a partire dal pomeriggio del 4 agosto, giorno nel quale una violentissima esplosione è deflagrata nel porto di Beirut, togliendo la vita ad almeno 200 persone, ferendone migliaia e creando enormi danni a molte infrastrutture cittadine ed abitazioni private. Le cause dell’esplosione sono ancora incerte, ma risulta abbastanza chiaro che a livello governativo ed istituzionale vi siano delle grosse responsabilità di negligenza.
In realtà, le motivazioni delle proteste sono ben più profonde e l’esplosione al porto non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco su una situazione già estremamente precaria. Le proteste di questi giorni, infatti, si possono identificare come una propaggine delle proteste che in Libano erano già iniziate nella metà di ottobre dello scorso anno, raccontate dai giornali come le più grandi degli ultimi anni ed interrotte solo dall’emergenza sanitaria che nel frattempo ha colpito l’intero globo.
Il Paese si trova a dover affrontare una gravissima crisi economica: il Libano risulta avere un debito pubblico di 86 miliardi di dollari (pari al 150% del Prodotto Interno Lordo) e il deficit di bilancio è a circa il 20% del PIL. La lira libanese ha perso oltre l’85% del suo valore sul mercato negli ultimi 9 mesi, provocando un vero e proprio crollo nel potere d’acquisto dei cittadini. Importando praticamente tutto (dagli alimenti di base ai beni di lusso), i prezzi delle merci sono salite alle stelle. Come se non bastasse i blackout sono all’ordine del giorno, essendovi una grande carenza di carburante nel paese. Anche l’agenzia di rating Moody’s, nel gennaio del 2019, ha declassato il Paese considerando le “numerose carenze strutturali e l’alta possibilità di un default”.
Le proteste erano iniziate in opposizione al piano del governo di imporre nuove tasse su diversi beni e servizi, tra cui il tabacco, la benzina e le telefonate fatte via internet: il governo aveva infatti proposto una tassa di circa 20 centesimi di euro al giorno per le chiamate vocali, fatte ad esempio su WhatsApp. L’intenzione era quella di risanare i conti, ma a farne le spese erano soprattutto le classi più disagiate. La proposta era stata poi ritirata, ma le manifestazioni di protesta non si erano fermate. Anche in seguito ad una serie di riforme che andavano ad intaccare alcuni privilegi dei parlamentari e di alcuni funzionari statali, le rimostranze proseguirono. A quel punto, il 29 ottobre l’allora governo in carica, presieduto dal Primo Ministro Saad al-Hariri, aveva annunciato le dimissioni e per alcuni mesi (fino a gennaio, quando è entrato in carica il Governo di Diab) il Libano si è trovato paralizzato all’interno di uno stallo istituzionale, in un periodo in cui il paese aveva disperato bisogno di riforme per fronteggiare la crisi economica che stava attraversando.
A peggiorare la crisi economica e sociale hanno concorso anche gli effetti della guerra in Siria, con il milione e mezzo di profughi siriani che si sono riversati in Libano, creando grossi problemi sia a livello sociale (la popolazione totale del Libano è di 6 milioni di abitanti) e sia a livello economico, portando ulteriore pressione alle casse statali, già languide.
Le proteste, oltre che per la grave crisi economica, sono rivolte anche al sistema politico libanese, ritenuto corrotto e basato su una endemica componente clientelare dei partiti del Paese, impegnati nello spartirsi fette di potere il più grandi possibili. Si critica il sistema attuale per l’inefficienza della politica, la logica settaria che caratterizza ogni decisione e la corruzione che genera. A riprova dell’enorme sconnessione che esiste tra l’élite politica e la popolazione del Libano, nel commentare le proteste di ottobre e novembre durante un’intervista televisiva, il Presidente libanese Michel Aoun ha dichiarato: “Se pensano che all’interno dello stato non ci siano persone integre con cui dialogare, che emigrino pure”.
Ma da dove deriva questa frammentazione politica e l’intrinseca debolezza della società libanese?
Per rispondere a questa domanda è necessario comprendere la genesi del Libano ed indagarne alcuni aspetti etnici e culturali.
Necessario sottolineare che allo stato attuale il Libano è un mosaico di religioni, popoli e culture, in cui convivono ben 18 confessioni religiose: 12 cristiane, 5 musulmane e una ebraica. Situazione in cui parlare di minoranze non ha molto senso poiché tutte queste confessioni contribuiscono a creare quel variegato caleidoscopio culturale che contraddistingue il “Paese dei cedri”. Un sistema che si poggia su fragili equilibri, essendo presenti non poche conflittualità tra le varie comunità. Non solo tra cristiani e musulmani, ma anche all’interno delle stesse confessioni.
Fragili equilibri che risalgono da molto lontano.
Il Libano nasce formalmente alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la dissoluzione dell’Impero Ottomano e la spartizione delle sue varie province tra Francia e Regno Unito. La Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque province che oggi formano il Libano, anche se già nel 1920 la Francia concedette allo Stato del Grande Libano l’indipendenza, seppur solo formalmente. E’ uno Stato composito, con un’enclave in Siria a maggioranza cristiano maronita e una maggioranza musulmana e drusa (gruppo etnoreligioso di derivazione musulmana sciita) con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il mandato francese.
Solamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale le truppe francesi si ritireranno dal territorio libanese, abolendo il mandato della Francia.
Nel 1948, in seguito alla risoluzione 181 dell’ONU, con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in favore della nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele, non invadendo però mai il neonato Stato sionista. In seguito alla sconfitta Araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, ad oggi, mai un trattato di pace. Risvolto principale della guerra fu l’enorme numero di profughi palestinesi (più di 100mila) che si riversarono nella società libanese. Numero che aumentò ulteriormente in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1967.
I profughi decenni più tardi saranno la causa, da parte dello stato ebraico, dell’invasione del Libano. L’operazione militare “Pace in Galilea” partì il 6 giugno del 1982 ed era finalizzata a sradicare dal Sud del Libano la presenza armata palestinese. Con l’invasione il paese appariva sempre più la preda degli opposti appetiti politici, israeliani e siriani. Quella che si può chiamare come la prima guerra israelo-libanese arrivò fino a Beirut, dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per evitare ulteriori spargimenti di sangue, intervenne la comunità internazionale che inviò delle truppe di pace (tra cui anche un nutrito contingente italiano), il cui scopo era frapporsi tra i contendenti. Inoltre, furono sgomberate le sedi della dirigenza Olp e furono riversati nei paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di protezione.
Fu in questo contesto che si consumò il massacro nel campo profughi di Sabra e Shatila. Tra il 16 settembre e il 18 settembre del 1982 più di 2000 profughi palestinesi, perlopiù donne, bambini ed anziani furono massacrati dalle unità cristiano maronite, lasciate agire indisturbate dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanza nell’area coinvolta.
L’invasione israeliana, inoltre, diede terreno fertile alla nascita del raggruppamento sciita militante, Hizballāh, o «Partito di Dio». I membri di Hezbollah, molto vicini alle posizioni dello sciismo iraniano, divennero il principale raggruppamento politico del paese e tutt’ora sono il gruppo di gran lunga più influente all’interno del mondo politico libanese. Il gruppo mirava a costruire uno Stato islamico sulla base del principio khomeinista e a migliorare le condizioni sociali della popolazione sciita, garantendo a quest’ultima un accesso nelle stanze del potere. Inoltre, per raggiungere i propri scopi, i militanti Hezbollah si lanciarono in una lotta senza quartiere contro Israele, considerato come nemico assoluto. Come arma di offesa il gruppo sciita adottò spesso e volentieri «il martirio», utilizzato sistematicamente per la prima volta in Medio Oriente. Uomini imbottiti di esplosivo andavano a sacrificarsi contro gli obiettivi militari avversari.
L’azione di Hezbollah fu di grande efficacia nel contrastare Israele e il partito si è in seguito vantato di essere l’unico vincitore in Libano.
Dopo il disimpegno isrealiano del 1989, anche la guerra civile interna, che imperversava ormai dal 1975 e che venne scatenata proprio dalle profonde rivalità interne tra sciiti, cristiano maroniti e palestinesi, andò lentamente ad esaurirsi. Si tenne a Tā’if, in Arabia Saudita, un vertice tra le varie componenti politiche libanesi che pose fine al conflitto. In tale vertice si raggiunse un accordo di compromesso, sempre e comunque basato sul sistema confessionale (forse il principale ostacolo alla trasformazione del Libano in uno stato finalmente omogeneo). Sebbene la maggioranza della popolazione non fosse più cristiana ma musulmana, si conservò l’assetto costituzionale che prevedeva fosse un cristiano ad occupare il posto di Presidente della Repubblica. I suoi poteri vennero però ristretti a favore del Primo Ministro (sunnita), mentre un maggiore equilibrio fu stabilito tra le fazioni sunnita e sciita dei musulmani. Inoltre, il numero di deputati cristiani fu parificato con quello dei musulmani (in precedenza, i cristiani erano lievemente in maggioranza).
Dopo il 1989 il Libano si è progressivamente ripreso e ha provato a lasciarsi alle spalle il vortice di violenze che l’aveva paralizzato per quindici anni, tornando progressivamente ad una vita normale. Le attività economiche sono rifiorite e, pur non tornando ad essere la «Svizzera del Medio Oriente» com’era soprannominato negli anni Cinquanta e Sessanta, quando le banche e il commercio ne avevano fatto uno dei paesi arabi più prosperi, il Libano ha conosciuto una nuova fioritura economica e sociale.
Hezbollah è divenuto un vero e proprio partito di governo, in nome di un nazionalismo religioso che però non considerava più come prioritaria la creazione dello Stato Islamico. Esso si legittimò nelle elezioni locali e nazionali, conquistando parecchi seggi e godendo anche di numerosi appoggi interconfessionali. Il settarismo religioso sembrò smussarsi in questi anni e la dialettica parlamentare ha fatto del Libano il paese arabo forse più vicino a uno stato democratico nel senso occidentale del termine.
Tuttavia, il paese fu rigettato nel baratro molto presto. Il 12 luglio 2006 l’esercito israeliano, in seguito ad un attacco di alcuni miliziani Hezbollah nei confronti di una pattuglia israeliana, invase la fascia sud del Libano, dando inizio all’ennesimo scontro tra i due paesi. L’agguato servì come pretesto ad Israele. L’obiettivo, infatti, era quello di costruire una fascia di sicurezza nel sud del “Paese dei Cedri” e a distruggere il regime Hezbollah.
L’attacco israeliano, tacitamente appoggiato dagli Stati Uniti, si rivelò un fallimento e il gruppo sciita riuscì a difendersi efficacemente, permettendo all’esercito nemico di avanzare solamente pochi chilometri e sostanzialmente sconfiggendolo. L’11 agosto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intervenne con una risoluzione (1701), che trovò il voto unanime dei paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Libano e l’interposizione delle truppe regolari libanesi affiancate da quelle dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera”. Ancora oggi i Caschi Blu italiani della missione Unifil continuano ad assicurare il controllo della “Blue Line” (così soprannominata) , che rappresenta quella linea “pratica” di demarcazione, lunga 51 chilometri, che separa il Libano da Israele e che, convenzionalmente, permette l’identificazione di violazioni accidentali tra le parti.
L’opinione pubblica araba, anche sunnita, si è schierata a fianco del partito sciita, che ha guadagnato grande legittimità, apparendo agli occhi degli arabi come l’eroe della resistenza nei confronti dell’aggressività dello stato ebraico.
Non v’è dubbio che molti agenti provocatori avrebbero avuto interesse a soffiare sul fuoco della destabilizzazione del Libano: dalla Siria stessa per riguadagnare l’influenza perduta, agli Stati Uniti per riscrivere la mappa geopolitica della regione ed indebolire indirettamente l’Iran, agli Hezbollah che avrebbero visto crescere la loro influenza, allo stesso Israele cui la debolezza libanese non può che tornare utile.
A complicare ulteriormente la scena politica, economica e sociale libanese è intervenuta anche la guerra civile siriana, scoppiata nel 2011, e la conseguente crisi del regime di Bashar al-Assad.
La crisi, infatti, ha riversato nel paese oltre un milione di profughi siriana, creando un profondo scompenso all’interno dello Stato e alterando sensibilmente i già precari equilibri libanesi.
La cartina tornasole della divisione e delle faide interne libanesi si può facilmente trovare nell’atteggiamento assunto da Hezbollah. Il partito si è costruito il suo sistema sociale: scuole, ospedali, case popolari. Poi ha fatto il suo esercito, meglio armato dell’esercito regolare. La sua non è un’agenda nazionale, ma mediorientale, come se fosse uno Stato e non un partito dentro lo Stato: è in guerra permanente con Israele, è alle dipendenze degli interessi iraniani e ha mandato le sue milizie a combattere in Siria, rischiando di coinvolgere il Libano anche in quel conflitto civile.
Nonostante tutto, Hezbollah svolge ancora una funzione catalizzatrice all’interno del Paese, attraverso il suo carismatico leader Nasrallāh. Il partito, che gode di un appoggio interno trasversale, a differenza di quanto si pensi in occidente, rappresenta l’unica forza politico-militare in grado di rintuzzare eventuali attacchi esterni.