Wanderlust: l’incontenibile desiderio di viaggiare
L’uomo è un essere curioso per natura: ogni giorno si pone interrogativi complessi e mai scontati, a cui spesso non riesce a dare risposta e tende a ricercare sfide che possano aumentare il suo livello di conoscenza del mondo o che lo aiutino a riempire la sensazione di “vuoto esistenziale” che lo caratterizza. L’esempio dell’Ulisse dantesco, presentato nel canto ventiseiesimo dell’Inferno, è perfetto per comprendere meglio questa condizione. Davanti alle colonne d’Ercole, classicamente definite come il confine ultimo del mondo conosciuto, l’eroe greco ricorda ai suoi compagni la loro natura: “fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”. In questa dichiarazione, Ulisse esplica il fine ultimo dell’uomo: egli non venne creato per vivere come una belva, ma per praticare la virtù e la conoscenza, per andare oltre i suoi limiti e scoprire quanto più possibile. Nel corso della storia, questo sentimento è diventato sempre più evidente agli occhi degli uomini, i quali tentano ancora oggi di porre rimedio alla loro “sete di sapere” affidandosi a vari espedienti: tra questi, a risaltare con maggiore intensità è il viaggio.
Se, nelle epoche più remote, ricercare nuovi spazi e risorse rappresentava una vera e propria necessità dal punto di vista pratico (si pensi, ad esempio, alle popolazioni nomadi che vagavano da una regione geografica all’altra per trovare terreni coltivabili o sorgenti d’acqua vicine) e il controllo su un’ampia fascia territoriale era motivo di vanto e simbolo di potere per chi la dominava (si ricordino le grandi missioni di espansione territoriale che hanno segnato tutta la storia, dalle antiche civiltà greche e romane fino al primo colonialismo), a partire dalla fine del XVII secolo (e con maggiore slancio per i due secoli seguenti) la concezione del viaggio iniziò a mutare, in particolare grazie alla diffusione in Europa della pratica del “Grand Tour”. Si trattava di un lungo itinerario che toccava alcune tra le più importanti città europee, molte delle quali in Italia, e che vedeva come protagonisti i membri appartenenti a famiglie dell’alta aristocrazia, che potevano permettersi di sostenere le ingenti spese di viaggio.
Il motivo che spingeva i viaggiatori a intraprendere il “Grand Tour” va ben oltre il semplice diletto personale: a muoverli, infatti, non era il mero obiettivo di trascorrere una lunga e oziosa vacanza in qualche località europea, ma la volontà di fuggire dal proprio mondo, di andare oltre, alla ricerca di nuovi orizzonti e culture. È un desiderio di infinita scoperta, che si manifesta attraverso una forte spinta individuale verso l’ignoto e tutto ciò che appare sconfinato, senza limite.
Tutte le caratteristiche precedentemente elencate costituiscono gli elementi essenziali del concetto di “Wanderlust”, parola tedesca che non presenta una vera e propria traduzione in italiano: popolarmente, si potrebbe esprimere con la formula “voglia di viaggiare”, anche se, come abbiamo visto, nasconde un significato molto più profondo. La composizione della parola stessa può aiutarci a comprenderla meglio: essa è formata da un verbo (“wandern”) e un sostantivo (“Lust”). Se la traduzione dell’ultimo vocabolo risulta abbastanza semplice (“Lust” vuol dire desiderio, voglia), il discorso cambia per il verbo: “wandern”, infatti, non può essere tradotto con “viaggiare”, e nemmeno con “visitare”, “esplorare” o “camminare”. La parola “wandern” indica piuttosto un “vagare tra la natura”, con una lieve sfumatura di riflessione spirituale e personale, e non a caso viene utilizzata ancora oggi in Germania col significato di “fare un’escursione”.
Pur trattandosi di un’idea dal gusto prevalentemente romantico, il concetto di “Wanderlust” non può essere racchiuso in quest’unico periodo storico. La letteratura mondiale di ogni tempo, infatti, è piena di narrazioni o testimonianze personali di avventure e viaggi, vissuti talvolta dallo stesso autore, in cui si avverte quella tensione emotiva verso l’ignoto e l’infinito tipica della “Wanderlust”. Un esempio è l’opera On the road di Jack Kerouac, che racconta i tre lunghi viaggi per l’America che lo scrittore intraprese insieme ad alcuni suoi amici e colleghi durante la metà del secolo scorso. In diversi punti il narratore descrive con particolare interesse e meraviglia gli spazi incontaminati dell’America più selvaggia e sembra quasi perdersi nella vastità delle Grandi Pianure del Nord o nel cielo stellato notturno. Allo stesso modo, Kerouac si avvicina con attrazione ad ogni persona che incontra, per conoscerne la storia, la cultura e le motivazioni che la portano a viaggiare. Proprio quest’ultimo punto rimane una grande incognita nell’animo dell’autore per tutto il romanzo, ma è proprio questa incapacità di trovare una spiegazione razionale al suo desiderio di viaggiare che lo può avvicinare al concetto di “Wanderlust”. A questo proposito, è celebre uno dei dialoghi tra Sal (pseudonimo di Kerouac) e l’amico Dean, di cui propongo un breve passaggio:
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.”
Da On the road (1957), libro di J. Kerouac
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare.”
In conclusione, si può affermare con sicurezza che nell’animo umano è sempre esistita una naturale inclinazione alla scoperta e allo spingersi oltre, che nel corso dei secoli si è manifestata nelle forme più svariate. Tra di esse, il viaggio risulta essere ancora oggi la soluzione più efficace per appagare questa tendenza. Quante volte, ad esempio, abbiamo pensato di lasciarci tutto alle spalle, abbandonare la nostra quotidianità per fuggire verso luoghi sconosciuti e lontani, immersi nella natura, nel silenzio di un deserto o nella tumultuosità di un temporale? Se tale quesito continua ad agitarsi nella tua mente, non ti preoccupare: sei stato colpito dall’inguaribile (ma innocua) malattia del viaggiatore.