Rompere “La quarta parete” nel mezzo di un conflitto: da spettatore a martire

La quarta parete di Sorj Chalandon è un libro catartico, scritto dall’autore per liberarsi del trauma che ha vissuto in prima persona e per raccontare uno dei conflitti di cui è stato testimone mentre era corrispondente e giornalista per Libération, quello del Libano. Nonostante ciò, non è un reportage, è una tragedia. Pubblicato in Italia da Keller con il sostegno del Programma di aiuto alla pubblicazione Casanova dell’Insitut français Italia, è valso all’autore il Prix Goncourt des Licéens, Il Prix le Choix de L’Orient e il Prix des Libraires du Québec. Non è una lettura semplice o leggera ma, come si legge in seconda di copertina, “la storia di un utopia ed un inno alla fratellanza” che però scuote nel profondo con la sua brutalità.

Il protagonista, George, è un aspirante professore di Storia e attivista di sinistra che nel ’68 partecipa ai movimenti studenteschi a Parigi a fianco di Sam Akounis, regista greco ebreo e anche lui militante. Molti anni dopo è Sam a chiedergli, mentre combatte in ospedale contro un tumore, di realizzare il suo più grande sogno: mettere in scena l’Antigone di Anouilh a Beirut, nel bel mezzo del teatro di guerra. Antigone è interpretata da una palestinese sunnita, Emone da un druso dello Shuf, Creonte da un maronita di Gemmayze. Tre sciiti interpretano le guardie, il Paggio ed il Messaggero, Euridice è una sciita, la Nutrice una caldea e Ismene una cattolica armena. Nonostante George abbia una vita serena, con una moglie ed una figlia di tre anni, decide di partire e provare a realizzare questo sogno folle per tentare di creare attraverso l’arte un dialogo fra le fazioni.

“Allora è lei? Il francese del teatro?” Sì, ero quel francese là. Mi aveva guardato. Parlava un cattivo inglese. “Ed è venuto a mettere pace in Libano?” Non mi prendeva in giro. Aspettava la mia risposta. Avevo sorriso. “Vengo solo a dare a degli avversari la possibilità di parlarsi” “A dei nemici” “Se preferisce” “Parlarsi recitando un testo di qualcun altro?” “Lavorando insieme a un progetto comune” Si era aggiustato la tracolla del fucile d’assalto. “E’ una specie di tregua allora?” Mi piaceva la parola. Avevo detto di sì. Il teatro era una tregua.

George si ritrova catapultato nel mezzo di un conflitto di cui non riesce a trarre le fila e tutte le sue convinzioni da militante politico in occidente si frantumano. L’uomo si scontra brutalmente con la realtà della guerra, prima mentre cerca di avvicinare i vari attori e di negoziare una tregua per poter mettere in scena l’opera, e poi quando cominciano i bombardamenti. Quando torna alla pace di Parigi è un guscio vuoto, riempito dalle immagini del conflitto e del famoso massacro nel campo profughi di Sabra e Shatila, che nel 1982 ha mietuto circa 3.500 vittime civili. Come molti altri reduci di guerra affetti da PTSD non riesce e non vuole sopravvivere alla normalità e quindi si lancia ripetutamente fra le braccia della guerra.

“Io sono il Coro […] Sono il narratore. Presento i personaggi, racconto, anticipo. Sono insieme il messaggero della morte e la voce della ragione. […] Sono l’unico a rompere la quarta parete. L’unico ad accettare la finzione del mio ruolo. L’unico a spezzare l’illusione.”

Chalandon racconta con brutale eleganza la guerra che risucchia tutti, tutto e anche Georges, imparziale voce del Coro che diventa assassino e militante, spezzando “la quarta parete” che lo faceva rivestire i panni del regista e che lo separava dal conflitto. Racconta anche, attraverso l’esperienza traumatica del ritorno di Georges, che cosa significhi assistere ad un conflitto senza esserne parte e quali sono le conseguenze se non si è in grado di ritornare alla normalità. Nel leggere questo romanzo ho spesso voluto chiuderlo e non riprenderlo più in mano, tant’è che l’ho concluso in due intense sessioni di lettura, a distanza di un paio di mesi. L’impressione che si ha, leggendo questo libro, è quella di voler distogliere lo sguardo e ci si rende conto della verità, detta da un medico di guerra a Georges: “abbiamo sempre due occhi di troppo“. La scrittura tuttavia è così incontestabilmente accattivante, complice anche la narrazione in prima persona, che mi ha costretto a girare l’angolo con Georges, a catapultarmi nelle viscere di quel conflitto che non conoscevo e che nemmeno il narratore comprende. Georges è un personaggio, tormentato, che suscita sia nei personaggi che incontra, che nel lettore, emozioni contrastanti. Noi siamo come lui spettatori esterni, ma allo stesso tempo ci scontriamo con le sue forti opinioni sulla Repubblica, sui nazisti, sulla religione, sulla guerra stessa. E’ un personaggio tragico, che sussurra a sua figlia appena nata “ucciderò per te“, ancora prima di sapere che cosa significhi e che di fronte ai primi spari e alle prime bombe non scappa a gambe levate, non vuole tornare a casa, ma si fa trascinare dalle passioni che scuotono il Libano.

“Per un attimo mi sono detto che in tutta la mia vita avevo vissuto solo per cinque giorni. E che nessun bacio di Louise sarebbe mai valso la piccola palestinese che ritrovava le parole di un poeta alzando il pugno […] Mi sono vergognato. Potevo rientrare a casa il giorno dopo, lasciar perdere, tornare alla pace, velocemente. Un sorriso di Louise e una carezza di Aurore erano le cose al mondo che mi rendevano vivo. Me lo ripetevo. Ma non ne ero più così sicuro. Allora ho avuto paura, davvero paura, per la prima volta dal mio arrivo. Non paura degli uomini che uccidevano, né paura di quelli che morivano. Paura di me.”

Fra i costanti parallelismi con l’Antigone e le strazianti descrizioni del conflitto, Chalandon mette in scena la tragedia della guerra civile in Libano, dei fratelli che si massacrano come dei novelli Eteocle e Polinice, di Creonte che deve far rispettare le sue leggi, ma soprattutto mette in scena la tragedia della “piccola magra. Non ci sono buoni o cattivi in questo romanzo, come non ce ne sono in guerra o nell’Antigone.

Perché Antigone?” “Perché Antigone? In che senso?” “Il Libano è un Paese in guerra e noi non ci siamo mica riuniti intorno a un’opera che parla di pace. Nessuno tende la mano a nessuno e alla fine muoiono tutti, no?” […] “E’ un’opera che parla di dignità” “La dignità di Creonte o di Antigone?”

E’ in questa domanda, che si pongono gli attori durante la prima (ed ultima) prova generale in un teatro sventrato dalle bombe, che sta il senso della tragedia. Per poter realizzare l’utopia del regista ebreo gli attori devono spogliarsi delle loro identità e delle loro fazioni per vestire quelli dei personaggi della tragedia. Molto spesso agli occhi di Georges personaggio ed interprete si mescolano, fino a diventare indistinguibili. Nel romanzo Antigone diventa la paladina del desiderio di “restare umani” e conservare la propria dignità, anche di fronte alle leggi draconiane di Creonte che la portano alla morte, anche di fronte alla devastazione che la circonda in Libano. Il senso del romanzo infine si può ritrovare nelle parole che il tassista druso Marwan, assunto per fare da guida a Georges in Libano, gli dice mentre cerca di consolarlo da ciò che i suoi “occhi di troppo” hanno visto.

“Hanno ucciso Antigone” “E’ Imane che hanno ucciso […] Non hanno ucciso Antigone. Sei tu Antigone. E’ Sam. E’ Nakad e tutti gli altri. Non sono abbastanza numerosi per ucciderla”.

Rebecca Franzin

Studio a Trento, ma sono di Vittorio Veneto (tecnicamente Solighetto). Forse un giorno mi laureerò in Studi Internazionali; nel frattempo, se siete credenti, sentitevi liberi di includermi nelle vostre preghiere.

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