Come si interpreta un’opera d’arte? – Rappresentare non è sostenere
“People confuse the subject of the joke with the target of the joke, and they’re very rarely the same.” – Ricky Gervais
All’inizio di Giugno 2019 YouTube ha aggiornato le sue policy in materia di hate speech:
“Oggi facciamo un nuovo passo avanti nella nostra policy contro l’odio in rete con la proibizione specifica di tutti quei video nei quali si asserisce che un gruppo è superiore ad altri con l’obiettivo di giustificare discriminazione, segregazione o esclusione basate su attributi come l’età, il sesso, la razza, la classe sociale, la religione, l’orientazione sessuale o stato di veterano. Questo potrebbe includere, per esempio, video che promuovono la glorificazione dell’ideologia nazista, che è intrinsecamente discriminatoria. Inoltre, rimuoveremo contenuti che negano che eventi violenti documentati, come l’Olocausto o la sparatoria della scuola Sandy Hook Elementary, siano realmente avvenuti.”
Come conseguenza di questa nobile intenzione contro la diffusione dell’odio possiamo citare tre casi emblematici di perfetta applicazione della policy:
1. Scott Allsop, insegnante di storia alla British School of Bucharest si è visto chiudere il suo canale YT di divulgazione storica. Dice in un Tweet il professore:
“YouTube have banned me for ‘hate speech’, I think due to clips on Nazi policy featuring propaganda speeches by Nazi leaders. I’m devastated to have this claim levelled against me, and frustrated 15yrs of materials for #HistoryTeacher community have ended so abruptly.”
2. Il canale ufficiale del Centro di Studi sull’Odio e sull’Estremismo della California State University, è stato chiuso in seguito all’applicazione algoritmica della policy.
3. Gruppi di estremisti di destra, neo-nazi e suprematisti bianchi hanno segnalato in massa canali anti nazisti e anti suprematisti per usare l’algoritmo di YouTube contro sé stesso e far bannare video e canali che in realtà criticano proprio quello che anche YouTube critica.
Questi tre esempi ci portano al tema di questo articolo: la differenza tra rappresentazione di un comportamento e sostegno di quel comportamento. Raffigurare un comportamento non significa appoggiarlo. È su questa evidenza che si basa ogni impresa artistica, retorica o satirica. Il che equivale a ripetere il ben noto argomento per cui il significato di un testo (e qui per testo intendiamo ogni insieme di segni interpretabili), dipende dal contesto in cui esso è inserito. Per chiarire ulteriormente il concetto farò tre esempi tratti dalla cultura pop.
- Prendete come esempio uno dei film più disturbanti della storia del cinema, Requiem for a Dream di Darren Aronofsky. Esso mostra con una crudezza al limite dell’insostenibile i corpi e le menti di persone dipendenti dalle sostanze stupefacenti più varie: eroina, anfetamine, intrattenimento, denaro. Si toccano vette di delirio visivo ed emotivo raggiunte poche altre volte da opere narrative. La scena finale è emblematica per il vivido ribrezzo che suscita [SPOILER ALERT]: la co-protagonista interpretata da Jennifer Connely, fidanzata del protagonista interpretato da Jared Leto, ormai rimasta sola e disperata senza nessuna dose di eroina è costretta a umiliare se stessa e lo spettatore che guarda il film in un climax discendente di putrefazione morale: prima fa sesso con un pusher per avere una dose, e in seguito, quando finisce anche quella, va a una festa organizzata da quello stesso pusher durante la quale si esibisce in un gioco erotico con un’altra donna per intrattenere gli invitati. Ottiene la sua dose di eroina, va via dalla festa e il delirio in cui precipita ha effetti talmente profondi da essere anche fisici tant’è che appena fuori dalla festa vomita. La potenza espressiva di Requiem for a Dream sta nel suo essere cinematograficamente perfetto: la narrativa del film è silenziosa. Pochi dialoghi, poche parole. Tutto l’impatto emotivo è affidato alle immagini, alle musiche e al montaggio. Il film mostra più che spiegare. Ma questa scelta registica, in questo film in modo estremo, ma in ogni opera narrativa in grado minore, ha una conseguenza principale: deve essere interpretata e collocata in un contesto proprio perché ha due potenziali interpretazioni contraddittorie a seconda del livello a cui analizziamo il testo. Da un lato l’autore potrebbe esaltare quei comportamenti, dall’altro potrebbe condannarli. E la differenza tra questi due atteggiamenti non è così piccola, direi.
- Come riporta la frase di Ricky Gervais in apertura, “le persone confondono spesso il soggetto dello scherzo, con l’obiettivo dello scherzo”. Parafrasando potremmo dire che le persone confondono spesso la rappresentazione del male con l’esaltazione del male. Accade lo stesso con i film di Quentin Tarantino, in cui la violenza esasperata, a un lettore dell’opera non superficiale, appare subito come il suo esatto ribaltamento: la forza retorica della violenza nei film di Tarantino è talmente esasperata e paradossale da risultare svuotata e depotenziata. È parodizzata e parossistica e perciò perde il terrore che la serietà conferisce alla violenza reale. Con questo artificio retorico della parodia e della satira, Tarantino sottrae serietà alla violenza e mentre mostra il sangue sta in realtà indicando la finzione che meta-narrativamente gli soggiace, tutto quello che c’è dietro, che quel sangue è finto proprio perché la violenza diventa stilizzata e stereotipata, tanto da essere identificata come violenza à la Tarantino. “Quando il saggio indica la Luna, lo stolto guarda il dito”, recita il proverbio.
- In un articolo del 2009 (potete trovarlo qui) Amy M. Green sostiene che Harry Potter, la saga scritta da J.K. Rowling, sia un’opera velatamente razzista e discriminatoria. Gli argomenti espressi nell’articolo a favore della tesi sono tuttavia basati sul principio di rappresentazione, che, concetto coniato appena ora in quell’articolo, porta a valutare l’opera sulla base di quello che rappresenta e non di come lo rappresenta. Nell’opera della Rowling si parla di schiavitù degli elfi domestici, di discriminazione razziale sulla base della purezza del sangue magico, di sottomissione dei babbani e altre creature ai maghi. Ma chiunque abbia letto o visto Harry Potter, sa che questi comportamenti sono criticati nell’opera, attraverso tutta una serie di dispositivi retorici che non consistono necessariamente nello spiegare esplicitamente al lettore o allo spettatore in modo didascalico e infantile che la schiavitù e la discriminazione sono sbagliate. Probabilmente il device retorico per eccellenza per mostrare senza spiegare è affidare una tesi che si vuole criticare a un personaggio negativo, o a un personaggio positivo che però è contraddittorio e oscuro.
Quest’ultimo esempio fa chiarezza su un altro punto importante: il principio di rappresentazione va di pari passo con una pigrizia interpretativa che attribuisce tutta la responsabilità interpretativa all’autore ed esige che questi chiarisca in modo del tutto didascalico e non equivocabile il messaggio, la morale, il senso della sua opera. Quando l’autore non lo fa, costoro proiettano comunque delle intenzioni autoriali sulla superficie dell’opera. Mi spiego meglio: quando un’opera richiede uno sforzo di astrazione meta-narrativa e contestualizzante per essere compresa, l’interprete pigro rimane comunque al livello di analisi di quello che viene rappresentato, senza spostarsi sul come, e così considera quel livello come il luogo in cui si rivelano le intenzioni dell’autore, il messaggio o la morale, fraintendendo completamente l’opera. Chi ragiona così arriva a dire che Shindler’s List è un film nazista, che 1984 è un’utopia, che Walter White di Breaking Bad è un personaggio a cui ispirarsi nella vita di tutti i giorni.
Non è nell’esperienza narrativa che si esaurisce il senso di un testo, bensì nella consapevolezza meta-narrativa che tale esperienza è stata possibile. È grazie a questo sdoppiamento dell’esperienza che possiamo dire che la scena finale di Requiem For a Dream è un capolavoro, nonostante nessuna persona sana di mente vorrebbe essere coinvolta in una scena così nella realtà, che possiamo apprezzare la scena della morte di un bambino in un libro nonostante sia un evento che preso in sé ci fa ribrezzo nel modo più radicale. È grazie a questa dualità dell’esperienza che possiamo valutare il distacco dell’autore stesso e distinguere tra esaltazione e critica di un comportamento raffigurato in un’opera e distinguere a sua volta la rappresentazione di un comportamento dal sostegno per quel comportamento.
Leggere un testo, di qualunque testo si tratti (film, libri, serie tv, dipinti, musica, ecc…) significa infatti saperlo interpretare, saperlo mettere in un frame di riferimenti, e agire per forza, dunque, anche a livello meta-narrativo. Prendersi la responsabilità meta-narrativa dell’interpretazione significa acquisire quella consapevolezza che ci fa staccare dall’oggetto della storia in sé e ci fa riflettere sul motivo per cui e sul modo in cui è stata scritta. E questa onesta presa di responsabilità è un compito difficile che ha a che fare con quella che potremmo chiamare “onestà della complessità”, l’ammissione onesta che le cose sono difficili e la responsabilità morale di raccontarle nella loro complessità, senza per forza appoggiare o criticare un comportamento, senza per forza esprimere un giudizio di valore su un evento, nonostante ogni racconto sarà sempre comunque mediato dal filtro della soggettività del suo autore. Quello che si fa con quel racconto è comunque una responsabilità che non si può cedere ad altri per nascondere la nostra pigrizia dietro la scusa della ricerca delle intenzioni dell’autore.