The Social Dilemma

Continua il ciclo documentaristico This is the climate change of culture di Jeff Orlowski. Dopo i documentari che lo hanno reso famoso alla critica, Chasing Ice, vincitore nel 2014 del News and Documentary Emmy® Award, e Chasing Coral,  é approdato sulla piattaforma Netflix il 9 Settembre 2020 The social dilemma, un docu-drama largamente discusso, che esplora gli effetti dei telefonini e dei social media sul comportamento umano, denunciandone la dipendenza nel vivere contemporaneo.

Diversamente però dai primi due documentari, incentrati sulla visione del rapporto uomo-natura, in The social dilemma Orlowski decide di mostrare il rapporto uomo-tecnologia, relazione che in scienze della comunicazione viene definito “a stella”, ovvero un rapporto ampio, non binario e molto più complesso.

Al livello strutturale la pellicola intreccia due filoni, alternandoli e creando assieme l’opera finale, ricca di un messaggio chiaro, ma per alcuni forse troppo superficiale.
Il primo filone è l’insieme delle interviste condotte a personalità note nel mondo della progettazione e programmazione dei social della Silicon Valley e a professori d’etica universitari. Tra questi vediamo Tristan Harris, dapprima consulente etico per Google e poi presidente e co-fondatore del Center For Human Technology, una compagnia, che stando al sito ufficiale https://www.humanetech.com/who-we-are, è nata nel 2018 con lo scopo di diffondere consapevolezza al pubblico per diminuire “il degrado di massa della nostra capacità collettiva di risolvere le minacce globali”.
Al suo fianco vengono intervistati Justin Rosenstein co-inventore del tasto “mi piace” di Facebook e Jaron Lanier peculiarissimo informatico e saggista statunitense, noto per aver reso popolare la locuzione ‘virtual reality’. Questi non sarebbero altri che i Prodigal TechBro, (locuzione ideata dalla professoressa Shoshana Zuboff, ugualmente intervistata) ovvero dirigenti tecnologici che sperimentano una sorta di ‘risveglio religioso’, che li porta a combattere contro corrente, contro l’impiego distorto dei social network e la loro connessione con giganti del tech e la lobby.
La seconda melodia, molto più debole e meno curata, è una fittizia narrazione di una famiglia statunitense media e degli effetti che l’abuso della tecnologia produce sulle nuove generazioni. Essa segue una narrazione scarna, troppo veloce rispetto al ritmo del film e ruota attorno ad un personaggio dispotico che sembra uscito da ‘1984’ di Orwell.
Alla fine di questo racconto, poi, ci vengono offerti nei titoli di coda, simili a suggerimenti didattici per un uso più appropriato della tecnologia, a cui tutti noi possiamo attingere per il nostro utilizzo quotidiano.

L’illusionismo è la chiave che lega il documentario e i due filoni.
Come viene più volte ripetuto a mo’ di mantra per istruire il cittadino più becero  “if you are not paying for the product, then you are the product“.
Le piattaforme tecnologiche guadagnano miliardi di dollari all’anno tenendoci incollati a fare sempre più “clic”, scorrere e condividere sui nostri schermi. Stiamo barattando il nostro tempo? Quanto vale un like in soldi? Viviamo nell’illusione di essere immuni a questo business? Questa economia di estrazione dell’attenzione sta accelerando il degrado delle persone. Secondo le statistiche ciò sta comportando un aumento dell’instabilità della democrazia. La continua ricerca di attenzione da parte di algoritmi monetizzati, comporta una limitazione di informazioni ogni giorno a noi presentate. Un like innocuo ad un post con contenuto politico forte comporta oggi una pioggia di contenuti simili presentati esclusivamente sulla nostra bacheca, che ci affascinano sempre più finché non vogliamo più alzare lo sguardo. Sullo schermo della pellicola passano davanti a noi infatti immagini di nascente populismo in Italia, polarizzazione del governo americano, crisi dell’elezioni in Spagna, conseguenze della nostra incapacità collettiva di risolvere le minacce. I collateral beauties della tecnologia dimostrano come in realtà l’essere umano stia mutando: a livello sociale sperimentiamo il dovere di essere piaciuti e giudicati da un numero troppo vasto di persone, ma a livello neurologico? Questo piacere cosa scatenerà nel nostro cervello oggi? E domani?

Sebbene sia un valido, interessante ed accattivante documentario per i meno informati, per coloro che tendono ad avere uno stretto rapporto con il meccanismo di monetizzazione dei social e con l’ambito di progettazione, questo film sarà da loro giudicato come troppo generico. É stato criticato sopratutto per essersi concentrato molto su Google e Facebook. In un articolo di The Verge, Adi Robertso scrive come non bisogna accusare solamente social come Facebook e i loro algoritmi per la diffusione globale di contenuti violenti, in quanto anche app di comunicazione privata come Whatsapp, sono state strumentalizzate per il terrorismo, come nel caso di Christchurch in Nuova Zelanda.
Ovviamente, nonostante il tono drammatico del film, è implicito che la tecnologia secondo i TechBro abbia aspetti positivi. La loro chiamata è per un miglior controllo della tecnologia e per aiutare chi da essa è assuefatto completamente, in maniera, seppur troppo astratta, rigenerante. Non tutte le persone conoscono i meccanismi più infidi e profondi della tecnologia e dei social, sebbene utilizzino questi ultimi costantemente, non ne conoscono i principi, nè i loro “goals”, nè il loro forte orientamento ad ingannare. Per questo suggerisco a tutti di vederlo una sera a casa, su Netflix and chill!

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